IL PARADOSSO DELLA SCUOLA: LA SEPARATEZZA DALLA VITA SOCIALE. CAMBIAMOLA.
Giuseppe Antinolfi
Segretario Provinciale
SNALS CONFSAL di Milano
Ancora una volta ci ritroviamo per parlare di scuola e nel titolo di questa mia breve relazione introduttiva ho voluto riprendere un concetto del pedagogista Riccardo Massa, che affermava: Il paradosso della scuola consiste nell’ “istituire la propria separatezza dalla vita sociale allo scopo di interagire con essa”, perché “la scuola”, come struttura specificatamente educativa, “è spazio … anche di contatto diretto con la realtà.”
Ciò che affermava Massa è proprio ciò che sta accadendo da molti anni e non può non richiamarci la teoria del filosofo Giambattista Vico sui “corsi e ricorsi storici”: la riforma Berlinguer, la riforma Moratti, la riforma Gelmini, gli interventi di Profumo e Giannini, per poi precipitare – come dice Leopardi nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia – “laddove il tanto affaticar fu volto, nell’abisso orrido” della “Mala Scuola” di Renzi, la regina delle Riforme, la Riforma delle Riforme, laddove, come nel minestrone, vi è un po’ di tutto, finanche alcuni aspetti deleteri del disegno di legge Aprea, come la scuola-azienda, il modello di gestione aziendale ipercompetitivo, il preside-manager, la chiamata diretta, la valutazione e il merito quali strumenti di selezione. Una miriade di riforme-riformine-riformette senz’anima e senza intelligenza.
La premiata ditta Renzi & Co. con la legge 107/2015 (alias “La Buona Scuola”) ha fatto di tutto per demolire la scuola pubblica, esibendo anche una profonda disistima nei confronti dei Docenti. Ha infatti inventato i presunti “potenziatori dell’offerta formativa”: docenti di filosofia negli istituti agrari o tecnici, docenti di diritto nei licei scientifici, docenti di greco e latino negli istituti professionali, docenti usati come tappabuchi, docenti parcheggiati in Sala Professori, …
La scuola, una volta istituzione pedagogica e didattica, una volta comunità educante, è stata trasformata dalla “Mala Scuola” in un’azienda proiettata sul “mercato”, disponibile ad offrire lavoro precoce subordinato e gratuito con l’alternanza scuola-lavoro, e con a capo autoritari controllori con super poteri, tutti appartenenti all’Associazione Nazionale Presidi (ANP), i quali non mostrano più alcun rispetto per la democrazia delle istituzioni scolastiche, che distribuiscono impunemente discriminazioni e privilegi (vedasi il bonus premiale) e che non tutelano adeguatamente la dignità altrui e la professionalità dei Docenti. Infatti alla base della scuola della premiata ditta Renzi & Co. vi è l’idea subliminale della gerarchia, con il totale svuotamento degli organi collegiali, ormai ‘rottamati’ anch’essi “dalla furia devastatrice della riforma renziana”. Non tutti i dirigenti scolastici agiscono “padronescamente”. Vi sono pure quelli che rispettano il principio e il diritto della collegialità nella gestione delle singole scuole, aperti al dialogo. Certo è che molti dirigenti scolastici hanno manifestato il loro entusiastico gradimento alla legge 107/2015, nonostante le negatività ampiamente manifestate dai docenti, dai DSGA e dal personale ATA, dai sindacati.
Dopo il governo Renzi si pensava all’arrivo di un ministro della pubblica istruzione che proponesse come ristrutturare la scuola dopo lo sfacelo provocato dalla pseudo riforma della legge 107.
Ma al peggio non c’è mai fine ed ecco quindi il colpo di grazia della titolata ministra Fedeli: ridurre a quattro anni il corso delle scuole superiori, il cosiddetto “liceo breve”, che invece dovrebbe chiamarsi il “liceo scarso”. Infatti come verranno insegnate e studiate determinate discipline con un anno in meno a disposizione? L’uscita anticipata degli studenti alla fine del secondo ciclo di istruzione rischia di impoverire l’offerta formativa, è quindi solo una operazione di cassa che farebbe risparmiare oltre un miliardo di euro alle casse dello Stato, ma provocherebbe una riduzione degli organici e la conseguente perdita di migliaia di posti di lavoro tra i docenti e il personale ATA. È forse questa la vera motivazione sottaciuta?
Dopo questa stramberia della Fedeli verrebbe da dire: – State fermi! Meglio che nulla venga mai toccato, mai modificato, mai sfiorato da una qualsiasi riforma.
Scriveva Italo Calvino: “Un paese che distrugge la sua scuola non lo fa mai solo per soldi, perché le risorse mancano, o i costi sono eccessivi. Un paese che demolisce l’istruzione è già governato da quelli che dalla diffusione del sapere hanno solo da perdere”. Di fronte a questo sfascio della scuola pubblica non si può non rimanere attoniti e contemporaneamente essere assaliti da un senso di rabbia per l’inettitudine della politica, più attenta al consenso elettorale che all’importanza della scuola nel processo di formazione degli studenti.
Scriveva Franco Toscani: “Quale idea e progetto di scuola e di società può emergere da tutto ciò? Una scuola e una società caratterizzate dalla competizione, dall’individualismo, dalla cortigianeria, dall’opportunismo, dal mero calcolo delle convenienze, dall’autoritarismo aziendalistico, dalla mancanza di solidarietà e di cooperazione, dalla prevalenza di un clima avvelenato e infetto, irrespirabile per tutti coloro che sono sorretti da un genuino amore per la cultura e per la verità.”
La scuola di oggi è un colabrodo, ma ai nostri (sic!) “decisori politici” questo non interessa, tanto, loro, nelle aule scolastiche non vivono tutti i giorni. Per ostentare il nostro disprezzo nei loro confronti dovremmo prendere esempio da Caligola, allorquando ha nominato senatore il proprio cavallo.
La scuola-progettificio, la scuola dependance dell’azienda, ha bisogno di riprendere il suo ruolo che ha perso ad ogni riforma. Già nel 1988 Roberto Maragliano e Elio Damiano parlavano di
“riscolarizzare” la scuola per sollecitare prospettive di rilegittimazione, di riaccreditamento e di rilancio della funzione della scuola. Sono passati 30 anni è siamo allo stesso punto, al Luna Park della Buona Scuola.
Ma finché c’è vita c’è speranza ed allora occorre risvegliarci dal torpore per cancellare il passato e ricostruire la scuola italiana agonizzante, senza però agire gattopardescamente come spesso accade: cambiare tutto per non cambiare nulla. Reinventiamo noi la nostra scuola!
Da parte mia io mi limiterò a formulare solo delle brevi ipotesi, forse anche provocatorie, lasciando poi ai relatori il compito di trattare più analiticamente i vari problemi.
La prima domanda che ci si dovrebbe porre riguarda il modello di scuola che vogliamo attuare. Ancora oggi in molte scuole vige il modello tradizionale, dove il docente “consegna” il sapere ai propri studenti, trasmette loro in modo frontale delle conoscenze, delle nozioni, dei contenuti. Poi si studia e quindi si interroga. È la scuola dei nostri tempi, quella della triade lezione-studio-interrogazione, anche se oggi si utilizza un’altra terminologia, più accattivante, quella dell’esposizione del docente, del lavoro personale, della verifica degli obiettivi raggiunti. Gira e rigira la minestra è la stessa. Saggio è il proverbio giapponese che dice: “Chi ascolta dimentica, chi vede ricorda, chi fa impara”
Non ci si accorge, o non ci si vuole accorgere, che il mondo è cambiato e così pure la scuola: gli studenti desiderano sempre più essere parte attiva in classe, desiderano essere ascoltati, vogliono dialogare-capire-pensare, non accettano più qualcosa come dato di fatto, chiedono un modello di scuola com’era la skolè. Come faceva Socrate? Che è questo? Che è quello? Che significa? Insegnare a pensare.
Perciò occorre introdurre nelle nostre scuole un po’ di innovazione: coinvolgimento attivo degli alunni, valorizzazione del gruppo classe, attività di ricerca, attività di laboratorio, mutuo apprendimento, con il docente che assume un ruolo di regia operativa.
Non basta dare il nome di “liceo” alla maggior parte delle scuole superiori – come ha fatto la riforma Gelmini – per garantire agli studenti una preparazione liceale, ognuna con discipline e programmi diversi. Come pure piuttosto che tagliare l’ultimo anno delle superiori sarebbe più opportuno razionalizzare programmi e indirizzi. Sarebbe stato meglio che i passati ministri avessero dedicato il loro tempo a realizzare veramente una innovazione significativa di tutto il percorso scolastico, iniziando dal vero punto critico della scuola italiana, quello delle medie. La formazione degli istituti comprensivi avrebbe dovuto ripensare una scuola di base in grado di assicurare e garantire la continuità educativa e didattica, realizzando la trasversalità dei progetti educativi, concretizzando la continuità del processo di apprendimento relazionata alla maturazione psicologica e intellettuale degli allievi. L’istituto comprensivo avrebbe dovuto consentire la costruzione del curricolo verticale con una organizzazione dei tempi scolastici e dei gruppi alunni legata ad un progetto educativo unitario e non settoriale. Un altro obiettivo sarebbe dovuto essere la collaborazione dei docenti delle scuole elementari e medie, l’integrazione delle competenze professionali degli insegnanti. Tutte belle intenzioni rimaste sulla carta e ciò dimostra che il vero scopo della creazione delle scuole comprensive era quello economico, risparmiare sul personale, eliminando per lo meno un dirigente scolastico e un DSGA, oltre al personale di segreteria.
Per favorire il raccordo tra la scuola elementare e la scuola media si potrebbe sperimentare un consiglio di classe verticale della 5 elementare e la 1° media, per affrontare la problematica dei linguaggi specifici delle discipline, il metodo di studio, l’autonomia di fronte ai testi scritti, la progettazione condivisa delle attività, ecc.
Nel frattempo la crisi della scuola media continua, continua la sua agonia o meglio continua la sua vita post mortem.
Tra le elementari e la scuola media si verifica un calo netto degli apprendimenti, le competenze linguistiche divengono sotto la media europea, le capacità matematiche e scientifiche appaiono sotto il valore medio di riferimento.
Le discipline sono troppe, ma soprattutto appaiono separate e incomunicanti tra loro. È proprio questa la causa maggiore del fallimento della scuola media: l’improvvisa differenziazione delle discipline genera la forte frattura tra le elementari e le medie.
È conclamato che la scuola media non funziona e perciò occorrerebbe ripensarla pedagogicamente, servirebbe qualcosa di profondamente diverso, anche perché la forma di una scuola non muta se non muta la didattica.
Perché allora non pensare a metodologie attive e cooperative, ad una didattica multidisciplinare, all’essenzializzazione di poche materie e alla scelta di materie opzionali, all’organizzazione di laboratori di attività didattiche con scelta libera in un range di opportunità?
Sono in atto varie sperimentazioni positive sulle “Classi senza aule”, dove gli alunni si spostano per recarsi nelle aule dedicate alle diverse discipline. Perché non estendere queste sperimentazioni?
Una concausa di questo sfacelo della scuola pubblica è la falsa autonomia concessa alle scuole, un’autonomia che non fornisce gli strumenti necessari. Si parla spesso di autonomia, come si parla spesso di piano dell’offerta formativa, di efficienza, di merito, di valutazione, di flessibilità, di performance. Parole, parole, solo termini abusati con cui si è ritenuto di innovare il nostro sistema scolastico. Illusione, perché con questo proliferare di vacui vocaboli si è perso il valore di voci come educazione, pedagogia, didattica.
La vita scolastica patisce anche lo scarso valore sociale della figura docente, tanto che sono diventati frequenti i casi di aggressività genitoriale. A ciò ha contribuito notevolmente il modello di scuola Dirigentocentrica attuato dalla premiata ditta Renzi & Co. La scuola è divenuta un ambiente professionalmente poco stimolante, poco collaborativo, spesso competitivo.
La professione dell’insegnante è molto usurante. Perché allora non prevedere la possibilità di accedere dopo un certo numero di anni ad un periodo da dedicare totalmente all’aggiornamento, delle proprie competenze, quindi con l’esonero dall’insegnamento. È il concetto dell’anno sabbatico, il“gap year” o anche “career break” dei Paesi anglosassoni, un “time out”, così come avviene per i docenti universitari, che possono concedersi un anno retribuito ogni 10 anni di anzianità, purché si dedichino alla ricerca scientifica o all’aggiornamento curriculare.
Il lavoro dei docenti ha visto una burocratizzazione crescente, una valanga di lavoro sommerso. La logica conseguenza è stata l’affievolirsi dell’autorevolezza della funzione didattica, educativa e pedagogica dei docenti, ignorando più o meno consapevolmente che essi sono i professionisti della formazione in ambito istituzionale, pur con poche soddisfazioni e riconoscenze. Nonostante ciò essi si dedicano con passione al proprio lavoro, rammentando un’affermazione del pedagogista Massa: «L’educazione è una sporca e triste faccenda, ma se non la facciamo noi ce la fanno gli altri». Chi? E come?
La demotivazione professionale di molti insegnanti è causata dalle caratteristiche strutturali del proprio lavoro, che non offre prospettive, non consente sviluppi, né di status né economici. Di fatto la professione docente più che le caratteristiche di una professione intellettuali ha quelle di lavoro impiegatizio: un appiattimento, con nessuna valorizzazione effettiva delle responsabilità, con nessun reale riconoscimento del merito, ad eccezione di quel modesto riconoscimento del bonus premiale. L’unica reale prospettiva di carriera consiste nell’accesso ai ruoli dirigenziali. Ed allora perché non istituire uno o più livelli professionali all’interno dello status di docente? Perché non prevedere il passaggio ai livelli superiori dopo un certo numero di anni di servizio e a seguito di una apposita valutazione dei titoli professionali/culturali e dei crediti formativi posseduti, con conseguenti significativi e stabili miglioramenti economici? Questa differenziazione delle funzioni potrebbe essere finalizzata allo svolgimento di attività di ricerca anche esterne alla scuola, di funzioni di coordinamento di progetti anche di rete, di gestione di incari quali tutoraggio, orientamento, laboratori, biblioteca. Si potrebbe prevedere al riguardo un esonero totale o parziale dall’insegnamento. È bene precisare però che al riguardo non vi debbano essere decisioni unilaterali dei dirigenti scolastici.
Sono anni che si parla di ruolo unico e di livelli di carriera diversificati, ma finora vi è stato solo il silenzio assordante dei vari ministri di turno, che hanno rinchiuso il in qualche cassetto del Miur.
La deriva aziendalistica della scuola renziana. In nome di una “autonomia” che nella scuola è in definitiva del tutto “inesistente”, in nome dell’efficientismo ha creato il “dirigente” contemporaneamente scolastico e manager, con un carico enorme di responsabilità, con il dono dell’ubiquità per la reggenza affidata d’autorità e perciò anche “dirigente vagante”. Gli è stato assegnato un potere decisionale di gran lunga maggiore rispetto al passato e la possibilità di circondarsi di una corte di docenti “consenzienti” che richiamano alla mente i “portaborse” dei nostri politici. Come il “dominus” egli elargisce l’elemosina, la mancetta del bonus premiale di merito. Pochi spiccioli, che però creano dissapori tra il corpo docente. Ecco allora insinuarsi l’obbedienza acritica, l’opportunismo, il conformismo e talvolta persino il servilismo.
Il dirigente scolastico renziano di tutto si occupa, trascurando la didattica per mancanza di tempo.
Egli non è più un “primus inter pares” come un tempo, ma un dirigente con pieni poteri, con la presunzione di essere “super partes”. Ma egli non può affatto essere un “super partes”, non può essere un “preside-padrone”, soprattutto perché in una istituzione come la scuola non può essere ridotta la funzione degli organi collegiali, la partecipazione democratica, in particolare del personale docente e non docente. Per una scuola veramente efficace ed efficiente egli deve assolutamente essere un “primus inter pares”. Ed allora, perché non si potrebbe nominare un preside eletto dai docenti e dal personale ATA, così come avviene per il rettore dell’università (un unico mandato di sei anni accademici, con possibile sfiducia da parte degli elettori)? Certamente sarebbero sempre gli insegnanti migliori a presentare la propria candidatura alla carica di preside elettivo. Egli dovrebbe occuparsi soltanto della didattica, della ricerca, delle attività e dell’aggiornamento; la gestione amministrativa e tutte le altre competenze concernenti l’organizzazione di qualsiasi attività dell’istituto scolastico dovrebbero essere affidata al Dsga. Sarebbe così risolto una volta per tutte anche il problema delle reggenze.
Ecco quindi il rapido quadro delle problematiche della scuola attuale, che manifesta chiaramente la sua incapacità educativa.
Questo convegno è stato organizzato proprio per non sottrarci anche come sindacato alla responsabilità di e-ducere, perché, come afferma ancora Massa, “Per sgradevole che sia, però, l’educazione è comunque ciò che determina strutturalmente il modo di essere dell’uomo”.
Ritroviamo la bussola di una teoria e di una prassi per cambiare la scuola, riscopriamo e condividiamo i valori di educare, istruire, formare, tre azioni sinergiche affidate “soprattutto”, ma non solo, alla Scuola.
Buon lavoro.
Giuseppe Antinolfi
Segretario Provinciale
SNALS CONFSAL di Milano