Covid, lockdown, Dad, valutazione, riaperture: questi drammi e questi rimedi hanno fatto esplodere la scuola italiana.
Ma non ci si pensa più. (ndr: dov’è l’Azzolina?)
È faccenda dura, di questi tempi, parlare di scuola. In primo luogo proprio perché si parla per lo più di scuola in generale, evocando un corpaccione smisurato accovacciato sull’esistenza umana dai tre ai diciannove anni (se va bene: perché il segmento mostra una marcata tendenza ad estendersi agli estremi e ad inglobare da un lato la primissima infanzia, dall’altro l’università). È uno scenario che confonde: la mente si perde vagando tra l’immagine di piccoli insonnoliti scaricati dall’auto e trasportati oltre la soglia alle prime luci dell’alba da genitori frettolosi, e quella di diciottenni, non di rado già reduci da lunghi soggiorni all’estero o almeno da vacanze vissute in totale autonomia, che scendono da treni e autobus affollati…
È curioso che questo appiattimento omogeneizzante si sia affermato in particolare ora, dopo settant’anni di psicologia dell’età evolutiva, quasi che il concetto, nato per sottolineare le differenze, si fosse paradossalmente rovesciato in comodo strumento per creare e maneggiare un blocco indifferenziato. E così, per mesi, si è dibattuto su chiusure e aperture sempre in generale, o tutto o niente, invocando di volta in volta argomenti che, in realtà, hanno peso diverso per i diversi segmenti. Possibile che non si possa parlare chiaro, almeno di fronte alle tragedie? Il tempo ci dirà se qualche mese di chiusura di asili ed elementari ha compromesso per sempre i livelli di apprendimento e socializzazione dei rispettivi allievi.
L’epidemia, con la connessa necessità del distanziamento, ha semplicemente messo in luce che le scuole italiane non erano in grado di garantirlo: classi troppo numerose, aule troppo piccole, edifici in cui gli alunni sono stati ammassati erodendo via via ogni spazio disponibile. Che senso ha avuto protestare a gran voce per l’iniziale chiusura? Bisognava non aver visto una scuola da molto tempo a questa parte, bisognava non avere preso mai un treno o un autobus alle sette del mattino. Non sarebbe stato più sensato riconoscere la realtà, ammettendo che dell’abitabilità risicatissima delle scuole e dello stato dei mezzi pubblici tutte le forze politiche condividono la responsabilità e incalzando semmai chi di dovere a cercare soluzioni concrete e differenziate, a seconda dei gradi di scuola e dei territori?
Ora pare che lo si stia facendo, speriamo che si continui, nella collaborazione stretta con gli enti locali. Ma, per dirla tutta, che sarebbe successo se le scuole, in tutta Italia, ai tempi dei mille morti al giorno, fossero rimaste aperte? Che cosa avrebbero detto le opposizioni che si sono scandalizzate per la violazione del diritto allo studio? Alla seconda settimana di interruzione, nessun insegnante italiano poteva seriamente immaginare un esito dell’anno scolastico diverso dalla promozione generale: nessuno che abbia una minima cognizione del funzionamento della valutazione finale, delle condizioni che sono necessarie per arrivare a un verdetto negativo in tempi normali, poteva seriamente pensare che quest’anno tali condizioni si sarebbero date.
Che senso ha avuto, allora, protestare vibratamente contro il ministro che ha tradotto in pubblica dichiarazione ciò che tutti sapevamo già benissimo? Proviamo a immaginare che avesse dichiarato il contrario, che i voti “a distanza” valevano uguale, che si poteva bocciare normalmente. Come avrebbero reagito le opposizioni?
E poi le lezioni a distanza. Ancora si andavano faticosamente e tragicamente disegnando i contorni imprecisi e inediti del cataclisma sanitario, ancora ci si illudeva che la chiusura potesse essere di pochi giorni (comprendenti per una parte degli studenti le vacanze di carnevale). Tutti, insegnanti, allievi, famiglie, eravamo alle prese con uno sconvolgimento della vita quotidiana, a volte con la paura, non di rado, specie in alcune zone, con il lutto. È stato giusto, in quel contesto incerto e cupo, incominciare il più presto possibile a mettere in atto ogni iniziativa possibile per riprendere i contatti con le classi, per restituire, diciamo così, a ogni studente la sua classe, pur tra tanti limiti. Ma che senso ha avuto inneggiare, come da tante parti si è fatto, a una sorta di nuovo avvento, a una riforma finalmente digitale della scuola propiziata dall’epidemia?
Tutte le forme di quella che è stata chiamata didattica a distanza (e soprassediamo, per carità di patria, alla smania che ha condotto a dotarla immediatamente di una sigla) sono state provvidenziali, tutte degne di essere coltivate e migliorate. Ma perché mettere in campo grandiose ambizioni palingenetiche? Non era già abbastanza impegnativo dare il più possibile in un contesto difficile, dare almeno qualcosa a ciascuno? Non sarebbe stato più giusto e salutare lasciare ai mezzi telematici il loro posto di mezzi, senza affrettarsi una volta di più a farne dei fini, la chiave di volta di un nuovo sapere? Si sarebbe desiderato un ministero più sobrio, meno incline a farsi incantare dai venditori di paradisi telematici e dal loro lessico, in un momento in cui l’essenziale non era certo la rivoluzione didattica ma la possibilità di raggiungere tutti.
Non che le discussioni sulla didattica non siano importanti, per carità; tuttavia questo discorso non dovrebbe essere sempre più disancorato dalla riflessione culturale e di fatto schiacciato sull’acquisto di dispositivi, come avviene ormai da anni. Ma deve trattarsi di una legge del nostro tempo, di un corollario antropologico inevitabile del trionfo della tecnologia. Riguarda solo l’informatica e i suoi annessi e connessi? Certamente no: nelle ultime settimane, nelle parole del ministro, l’innovazione didattica è stata incarnata dai banchi con rotelle e ribaltina. Dunque, si comprino. E senza che mai delle magnifiche virtù pedagogiche dell’acquisto si debba produrre uno straccio di prova.
da Il Sussidiario – 12 agosto 2020