Non bastasse il Covid, il centralismo burocratico del Miur affastella i docenti di incombenze insostenibili. Le “carte” nascondono una volontà politica?
Il mio amico e collega Leonardo è un tipo coi piedi per terra. E non perché alla scuola media inferiore insegni tecnologia. Possiede, anzi, una solida cultura multidisciplinare e, quando prende la parola nei consigli di classe, l’assemblea si zittisce e lo sta ad ascoltare perché ha sempre qualcosa di interessante da dire.
Però da qualche giorno lo vedevo un po’ incupito, un po’ introverso come non è nella sua natura e, incontratolo lungo il corridoio, gli ho chiesto piuttosto banalmente come andava. Mi ha fulminato con una immagine che racconta tutto: “Siamo sul Titanic e, mentre la nave affonda, l’orchestra suona”.
In giorni di programmazioni a go-go come questi, mi è stato semplice uscir di metafora. Il Covid avanza a larghe falcate dentro le nostre città e tiene d’assedio le nostre scuole, circondate dal misterioso virus come gli indiani cingevano i fortini del vecchio West in certi film alla buona in bianco e nero. Ma dentro le classi, la vita prosegue – quanto a vessazioni burocratiche – come nulla fosse, come appunto l’orchestrina del Titanic dopo la collisione fatale col l’iceberg nel film di James Cameron: sollecitate da solerti maestre, schiere di psicologi sfornano a tambur battente le loro compunte diagnosi di disgrafia, discalculia, disortografia, di disadattamento sociale e familiare che ormai costituiscono un buon 25 per cento dell’universo scolastico italiano e che, solerziamente consegnate a scuola dai genitori, si trasformano in Piani didattici personalizzati e Piani per bisogni educativi speciali. Una decina di fogli per ogni alunno, pieni zeppi di voci che il coordinatore crocetta e fa crocettare ai colleghi.
E sempre il coordinatore ha la fortuna, non si sa per quale prerogativa, di rispondere a schede precompilate dagli studi di psicologia dell’età evolutiva in cui è invitato a “rispondere in ogni caso” a quesiti molti interessanti del tipo: “L’alunno ha paura del buio? L’alunno ha paura degli animali? L’alunno si distrae?”.
No, cari scienziati, i miei alunni non si distraggono mai. Poi ci sono schede, tabelle, modelli che riguardano i Piani educativi individuali da compilare tenendo conto del Piano triennale dell’offerta formativa, del Piano annuale per l’inclusione, del Piano di integrazione degli apprendimenti, del Profilo educativo culturale e professionale. Uno per ogni alunno, s’intende.
E poi, giusto quest’anno perché il ministero non è stato nemmeno sfiorato dal dubbio che aggiungere una disciplina d’insegnamento in più sarebbe stato folle, ecco il regalo parlamentare (di tutti gli schieramenti politici, nessuno escluso) dell’educazione alla cittadinanza. Roba che si è sempre fatta insieme ai normali programmi didattici, di storia e non, ma che non poteva certo rimanere dov’era.
Ed ecco che, in ossequio alle ultime direttive ministeriali (nella scuola italiana si ossequia sempre, non ci si oppone mai davvero), compaiono i Nuclei concettuali individuati dalle linee guida. Non voglio qui tediarvi a lungo, ma solo proporvene qualche succoso passaggio concernente il “profilo delle competenze (parlare di conoscenze è diventato peccato mortale, ndr) al termine del primo ciclo di istruzione”: “L’alunno è consapevole che i principi di solidarietà, uguaglianza e rispetto delle diversità sono i pilastri che sorreggono la convivenza civile e favoriscono la costruzione di un futuro equo e sostenibile”; “L’alunno comprende il concetto di stato, regione, città metropolitana, comune e municipio e riconosce i sistemi e le organizzazioni che regolano i rapporti tra i cittadini e i principi di libertà sanciti dalla costituzione”; “L’alunno è in grado di distinguere i diversi device e di utilizzarli correttamente, sa applicare le regole sulle privacy, è in grado di argomentare attraverso diversi sistemi di comunicazione”. Ne conseguono “progettazioni di unità di apprendimento” con obietti formativi di questo genere: “L’alunno sa valutare se stesso e le proprie capacità e sa apprezzare il contributo dell’altro producendo un elaborato completo ed esprimendo giudizi personali”.
La scuola italiana sforna geni e non ce ne siamo accorti. Tutta carta da riempire, anche se magari solo in forma di foglio elettronico e che – il mondo docente mi è testimone – la quasi totalità degli adulti non leggerà mai. Così, tra Pdp, Ptof, Pei, Pai e altre fantasmagoriche invenzioni degne delle famose “rime buccali” partorite da funzionari in vena di protagonismi lessicali di cui facevamo volentieri a meno, dei contenuti, cioè della cultura, non parla più nessuno.
Non uno straccio di circolare che si occupi delle conoscenze, mandate in soffitta per la verità già dal 2004 grazie ad un decreto ministeriale che sostituiva i programmi con le “indicazioni”: meno stringenti, più generiche, piene di fumo. La prova del nove sta nel fatto che è difficilissimo seguire corsi di aggiornamento sui contenuti delle materie, mentre è diventato normale iscriversi a quelli su norme, leggi, provvedimenti et similia.
Conclusione: la scuola affonda come il famoso transatlantico, ma guai distrarsi dalle “sudate carte” così diverse da quelle che impegnarono Leopardi negli anni della giovinezza. “Il buio cresce, le forze scemano” scriveva Shakespeare. Aveva ragione come ha ragione il mio amico Leonardo: è una delle sue citazioni preferite.
Il Sussidiario – – Riccardo Prando