La generazione dei giovani non è sacrificabile. In questa crisi bisogna investire su di loro, invece c’è chi “ci dipinge come poveri mendicanti destinati a campare di rimessa”
Sono una giovane aspirante avvocato, di 24 anni, e una scrittrice. Mi occupo di poesia e di diritto, due arti che impongono di guardare la realtà in tutta la sua ampiezza e di andare al fondo, e al di là, al cuore delle questioni. E che impongono una coscienza critica, vivace. Sarò dunque molto diretta e breve nel dire quel che devo.
La mia generazione non è sacrificabile. Qualcuno deve iniziare a gridarlo, vista la sordità diffusa di chi dovrebbe preoccuparsi di passare il testimone. E a gridarlo non possono essere i volti triti e ritriti della televisione italiana che da anni ripete sé stessa o quelli dei talk show in cui non si assiste ad altro che al chiacchiericcio, a discorsi intrisi di banalità su un tema vivo, che meriterebbe voci credibili, attente, come quelle dei diretti interessati, ad esempio. La voce dei giovani. Perché in Italia esistono anche queste creature.
La scorsa sera in televisione c’era un politico, un ministro mi pare, che con aria candida recitava un copione assurdo, diceva cose talmente incredibili che preferisco immaginare che anche lui non si rendesse bene conto di che cosa stesse dicendo. Insomma, per l’eminente in questione “i giovani italiani sono restii ad abbandonare il tetto familiare perché, a differenza dei loro coetanei stranieri nel resto d’Europa, sono molto più affezionati alle loro famiglie”.
No, caro ministro, è inutile dirti che questa affermazione fa ridere oltre che piangere, ma no, noi giovani italiani non amiamo le nostre famiglie al punto da rimanervi oltre la soglia dei trent’anni, e questo non fa di noi degli esempi di virtù. La verità è un’altra. La realtà è che nel nostro paese accade che coppie di ragazzi che hanno già superato i trent’anni e che stanno insieme e magari, che so, si amano, nella maggior parte dei casi non possono permettersi di sostenere un affitto, di mantenersi da soli, iniziare semplicemente una vita normale. E questo non accade perché soffrono della sindrome dei mammoni.
Un’amica che lavora per una ditta di produzione televisiva l’altro giorno è esplosa, in un momento di stanchezza e frustrazione, dicendomi al telefono: “Fla, è da marzo che dicono che dobbiamo farci coraggio, ma io comincio ad essere stanca. Mi hanno mandata a casa dicendo che per ora faranno lavorare solo ‘gli interni’. Già prima vivevamo nella precarietà più totale, adesso con questa crisi non so dove andremo a finire, anche perché tutto questo verrà nascosto sotto il tappeto… Non so se valga più la pena credere in questo paese!”.
Questa, è la realtà. Una realtà che nessuno guarda davvero in faccia, perché son tutti occupati dal contingente, dall’immediato, ma è una realtà composta da milioni di ragazzi che saranno il volto del domani e mi spaventa pensarlo così. Conosco moltissimi giovani di talento, giovani scrittori, scienziati, artisti, aspiranti professionisti, e quasi tutti in faccia portano stampata la stessa espressione che racconta di una disillusione, quasi di una rassegnazione, che uno non dovrebbe conoscere nel primo ventennio della sua vita.
Questo dovrebbe essere il momento dell’avventura, del rischio, dell’adrenalina assaporata in ogni tentativo, mentre invece tanti di noi sembrano già avvezzi calcolatori, che fanno programmi per assicurarsi, per garantirsi, con la schiena un po’ curva, già il viso un po’ segnato dalla scontentezza, dalla ritualità delle cose che si ripetono sempre allo stesso modo, con la stessa temperatura. Una generazione che, a furia di essere descritta senza avvenire, perde il senso del suo viaggio e della sua unicità.
Io vivo una situazione che non rispecchia la norma, sono tra quei pochi fortunati che son riusciti a laurearsi in fretta, ho iniziato a lavorare a 23 anni, ma mi accorgo che amici più grandi di me spesso scelgono di continuare a studiare, pur avendo già 25, 26, 27 anni, e lo fanno per autodifesa, lo fanno perché in fondo sanno che il mondo del lavoro non è pronto ad assorbirli, che tanto non c’è domanda per quello che stanno offrendo, quindi tanto vale continuare la formazione senza una precisa data di scadenza, piuttosto che ritrovarsi senza aver nulla da fare, e nulla di cui occuparsi.
Sempre l’amica della telefonata mi diceva piangendo: “Se mi tolgono il lavoro non mi sento più una persona! Non mi interessa ricevere alcun bonus, a me interessa lavorare!”. Ebbene noi non siamo invisibili, noi esistiamo, proprio come i grandi che si divertono a parlottare della generazione “sfortunata”, e siamo molto stanchi di questo, soprattutto, di questa narrazione fuorviante e vessatoria che imperversa beata ovunque, che ci dipinge come poveri mendicanti destinati a campare di rimessa, a raccogliere briciole. Ma poi nessuno investe su di noi, o nessuno ha interesse a premiare giovani di talento al di fuori delle logiche nepotiste o di casta che vedono gente appartenere “all’ambiente” e in virtù di questo avere accesso a determinate posizioni. E vanno dicendo che non abbiamo voglia di lavorare.
La crisi. Questa crisi, che sta trasformando le persone in una schiera di zombie con gli occhi fissi sulla punta delle proprie scarpe piuttosto che sull’orizzonte, è una crisi che dura da anni, non è qualcosa di cui ci accorgiamo adesso, conosco ingegneri, dottori in giurisprudenza, matematici, che stentano ancora, dopo anni dalla laurea, a trovare un impiego stabile, e ho menzionato questi settori non a caso, perché si pensa generalmente che siano quelli grazie ai quali non si dovrebbe elemosinare per vivere.
La colpa di questa situazione è degli adulti, di chi, torno a ripetere, miope e sazio della propria collaudata razione di benessere giornaliero, non si occupa se non del proprio “adesso”, invece che guardarsi intorno e pensare anche a ciò che lo supererà, a chi dovrà occuparsi di tutto, quando altri avranno smesso di farlo. E questo sguardo cieco attanaglia tutti, in tutti i settori, non esistono zone salve ove si possa registrare un’attenzione differente, se non pochi e rari esempi di adulti, come son stata fortunata di incontrare, che prendono seriamente ed eroicamente a cuore il problema e se ne fanno bardi, tra il disinteresse generale.
Ebbene, qualcuno dovrà risarcire i giovani, a loro anche dovranno andare i “ristori” per il futuro che nessuno è più in grado di fargli vedere. Non mi interessa coltivare né alimentare le polemiche in corso in queste ore riguardo le misure prese per contrastare il virus. È necessario spostare lo sguardo più in là, uscire dalla miopia a cui la lotta alla pandemia ci ha costretti, e ampliare lo sguardo verso ciò che sarà dopo.
Perché il dopo ci attende, e mi interessa capire se chi sta scegliendo ora nel presente ne abbia consapevolezza. Si rinuncia, come stanno rinunciando i più giovani, come mia sorella che ha 18 anni, quando si ha solo voglia di scoprire e stare in compagnia di amici con altrettanta voglia di scoprire, a uscire la sera e andare per locali con la propria sacrosanta birra in mano. Si rinuncia alla discoteca e al ristorante, se temporaneamente occorre questo per fermare il male che ci assedia. Ma non si può rinunciare a immaginare il proprio futuro, non si può smettere la meraviglia, a vent’anni. Non si dovrebbe mai.
Dunque il mio appello è perché si inizi da subito a pensare a cosa fare quando questa situazione sarà finita, quando bisognerà ricostruire veramente, perché esistono nuove vite che vogliono uscire fuori dal pantano, che chiedono il loro legittimo posto nel mondo, e a cui deve riconoscersi il diritto di immaginare il futuro, nel nostro paese, come il migliore tra i futuri astrattamente possibili.
– Flaminia Colella