Nuovo nome, vecchi problemi. Con l’impennata dei contagi la didattica a distanza – che ora si chiama digitale integrata e ha cambiato l’acronimo da Dad a Ddi – è di nuovo la regola per 2 milioni di studenti italiani. Almeno per il 75% dell’orario. Ma per 300mila di loro il salto dalla classe al web si annuncia complicato. Gli 85 milioni stanziati dal decreto Ristori per acquistare device e chiavette Usb rischiano di non bastare. E a complicare il quadro ci pensano anche i nostri cronici (e storici) gap di diffusione della banda ultralarga. A casa e a scuola.
Il gap di strumenti tecnologici
Il ritorno alle lezioni on line ha costretto gli istituti a optare per due nuovi modelli organizzativi: una settimana in presenza (nei tecnici e professionali si cercherà di recuperare così la didattica laboratoriale) e 3 a distanza o 1 o 2 giorni a scuola, e i restanti 4 o 3 da remoto, con salvaguardie, ove possibile, per studenti del primo e del quinto anno (impegnati questi ultimi a giugno nella maturità) e per i ragazzi con disabilità o con bisogni educativi speciali. Con il decreto Ristori sono arrivati altri 85 milioni sul fondo per l’innovazione digitale e la didattica laboratoriale di viale Trastevere per consentire alle 8mila scuole statali di acquistare e concedere in comodato d’uso gratuito agli studenti meno abbienti 211.469 dispositivi digitali e 117.727 accessi alla rete. Il punto è che, in base ai monitoraggi ministeriali, allo scorso 1° settembre mancavano ancora 283.461 Pc mentre 336.252 alunni non avevano connettività. Dunque, già in partenza ci sarebbero quasi 300mila richieste destinate a restare inevase. Tanto più che solo da qualche giorno sono partiti i primi bonus da 500 euro per tablet e pc per giovani e famiglie meno abbienti
Anche se la ministra Lucia Azzolina assicura tempi rapidi nelle erogazioni delle risorse in passato non è stato sempre così. C’è poi da aggiungere che, a differenza del decreto Cura Italia dello scorso marzo, negli 85 milioni di euro non è incluso il personale scolastico: se pure si riuscisse a coprire, come auspica l’Istruzione, l’intero fabbisogno dei ragazzi si rischia di non poter soddisfare quello dei prof. Pensiamo agli oltre 150mila supplenti che non usufruiscono della card docente e potrebbero non avere un device personale. Da fonti sindacali stimano infatti in un 10% di insegnanti ancora in affanno nelle lezioni 2.0. Senza contare il ritardo nella formazione confermato da uno studio della Cgil di inizio ottobre: durante il lockdow di primavera, 6 prof su 10 avevano difficoltà a utilizzare i device informatici (alla primaria); e al Sud tantissimi studenti e insegnanti avevano una bassa o inesistente connessione a internet.
La banda ancora troppo stretta
C’è poi un problema di banda ultralarga ancora poco diffusa. L’ultima relazione annuale dell’Agcom quantifica al 17,4% la percentuale di edifici scolastici raggiunti dalla fibra Ftth (la cosiddetta “fibra fino a casa”). Con alcune regioni (il Molise al 5,4%, Il Trentino Alto Adige e la Calabria al 6%, la Basilicata e le Marche poco sopra il 9%) ben più indietro. È chiaro che in quei territori spostare almeno i tre quarti delle lezioni online, magari con il docente collegato dalla scuola, renderà più difficoltosi i collegamenti da remoto. Senza considerare poi il ritardo domestico. Con appena il 13% delle famiglie che – stando al Desi Index 2020 sulla digitalizzazione dell’economia e della società – ha accesso alla banda ultralarga. Tutti fattori da non sottovalutare nel momento in cui due Regioni, Campania e Puglia, hanno deciso di chiudere anche le primarie e le medie e altri lockdown locali già si vedono all’orizzonte.
da Il Sole 24 Ore – 2/11/2020 – Eugenio Bruno e Claudio Tucci