Dopo mesi di chiacchiere su plexiglas e banchi a rotelle e dopo una faticosissima riapertura a settembre, con un numero mai visto di cattedre ancora da riempire, gran parte della scuola sta per tornare in lockdown. Solo infanzia e primarie continuano in presenza: speriamo il più a lungo possibile, dato che le analisi recenti confermano la poca efficacia dell’apprendimento online per i più piccoli. Nelle regioni più a rischio, medie (dalla seconda classe) e superiori faranno solo didattica a distanza.
Si poteva evitare una nuova chiusura così estesa? Sì, anche se non era facile: dalle simulazioni dell’Istituto superiore di sanità dello scorso aprile si sa che scuole e università, creando assembramenti, specie sui trasporti, sono il singolo maggior fattore di propagazione del virus.
Si doveva agire su tre fronti, modulandoli a seconda delle esigenze dei diversi gradi di scuola: ridurre il numero di studenti per classe, creando “bolle” stabili di 10-12 allievi, con minore rischio di contagio; organizzare turni, a distanza e in presenza, al mattino e al pomeriggio, per diminuire l’affollamento dentro gli istituti — per molte ore in luoghi poco aerati — e sui mezzi pubblici; scaglionare le entrate e diminuire la capienza di bus, tram e metro, evitando la commedia dell’assurdo recitata a fine agosto da molte Regioni e una ministra per aumentarla. Purtroppo, il ministero dell’Istruzione ha scelto una strada diversa, puntando a un rientro a settembre nelle medesime condizioni di febbraio: stessi orari, stessi spazi, stesse regole per l’assegnazione delle cattedre (a parte 50 mila supplenti in più per l’emergenza), ma complicate da una nuova procedura online, causa di molti guai.
Nonostante tutto, la strategia avrebbe potuto avere successo, a condizione che funzionasse la procedura dei tamponi, con risultati veloci e tracciamento efficace. Invece, per la lentezza delle sanità regionali sui tamponi, si è stati costretti a mandare sempre più docenti e studenti in quarantena: il sistema scolastico, specie alle superiori, stava andando in lockdown per conto suo, anche prima del Dpcm.
Per evitare ai ragazzi un’altra lunga fase di mancanza di scuola, con danni permanenti agli apprendimenti e alle competenze sociali ed emotive, la strada è quella tracciata: prepararsi a riprendere a gennaio con un’organizzazione diversa, con piccoli gruppi stabili, turni e maggiore scaglionamento di ingressi e uscite. Certo, per farlo occorre tenere le scuole aperte tutto il giorno, chiedendo ai docenti di lavorare più ore, ovviamente retribuite. Forse non tutti i sindacati saranno d’accordo, ma perché il ministero non prova a proporlo?
Servirebbero poi due altri interventi per i periodi di lockdown. Il primo — coraggioso e innovativo — sarebbe concentrare l’insegnamento online sulle materie chiave ( in primis italiano, matematica, inglese), dove il costo di restare indietro è più elevato. Il secondo — obbligato oggi e per il futuro — è formare i docenti alla didattica a distanza. Quanto tempo si è perso, limitandosi a rinominarla didattica integrata digitale, come se ciò ne cambiasse la sostanza. Negli scorsi mesi, dopo che molti docenti per la prima volta si sono avvicinati all’insegnamento online, si sarebbero dovuti creare moduli obbligatori e dare loro gli strumenti adatti, superando la semplice riproposizione in video delle lezioni trasmissive. La didattica online non potrà mai sostituire del tutto quella in presenza, ma può aiutare a predisporre un nuovo rientro a scuola meno pasticciato. A marzo eravamo impreparati, oggi sarebbe imperdonabile non prepararsi.
Andrea Gavosto – direttore della Fondazione Agnelli – 14 novembre 2020