La scuola ai tempi della pandemia, secondo Alessandro D’Avenia, insegnante in un liceo milanese, autore di libri di successo, l’ultimo ora in libreria, “L’appello”, edito da Mondadori.
«La scuola di oggi sarebbe da buttare nel cesso in questo momento. Un baraccone in cui l’ultima cosa sono le vite delle persone». A parlare così è una delle studentesse della classe sgangherata protagonista de “L’Appello”. Che termini userebbe questa ragazza per definire la scuola ai tempi della Dad?
Dobbiamo smetterla di ridurre la scuola al medium che usiamo. La scuola è la relazione discepolo-maestro. Una relazione circolare che ha come obiettivo la crescita sia dell’uno che dell’altro. Se questo non accade, la relazione semplicemente non c’è, sia in presenza sia a distanza. La scuola è aperta solo dove questa relazione è viva. Abbiamo bisogno di una scuola che torni a dare centralità alla relazione, e invece la scuola di oggi, tra burocrazia e supplentite, è l’esatto contrario.
La Dad in molti casi è solo il necrologio di un paziente moribondo, in molti altri è un’occasione di crescita straordinaria. Tutto dipende dalla relazione che avevamo prima con i ragazzi.
«C’è caos sul volto di ogni adolescente», scrive nel suo libro. Lei che i ragazzi li vede ogni giorno, anche se dietro a un Pc, quale caos legge sui loro volti sgranati dai pixel?
Quando la relazione era viva anche prima, tutti si impegnano a mantenerne il calore online. Non è il medium che fa il messaggio, ma il messaggio che fa il medium. Che poi molti si adagino e si lascino andare mi sembra normale, ma sono poi i primi a soffrirne. Questa situazione sta già causando molti traumi ai ragazzi più fragili. Per altri versi sta consentendo a quelli più riservati o timidi di emergere in modo più protetto. La partita si gioca giorno per giorno, uno per uno. Educare è un lavoro creativo, non ripetitivo.
Che cosa si rischia secondo lei, che ogni giorno entra nel parallelepipedo virtuale che è ormai la classe?
Non chiediamo alla scuola di fare tutto. È l’errore che sovraccarica la scuola di compiti educativi che spettano alla famiglia. Per superare la situazione o per sfruttarla a nostro vantaggio, l’unica maniera è allearsi. Io sto facendo molti più colloqui con i ragazzi e con i genitori online di quanti ne facessi prima in carne e ossa. Il mezzo semplifica la comunicazione e ne possiamo approfittare per un lavoro più capillare e mirato sui singoli ragazzi. Ho avuto sorprese che non mi aspettavo.
Nel suo libro a salvare i ragazzi è un insegnante cieco che, grazie all’appello, riesce a leggere nella loro anima. Oggi come è possibile per gli insegnanti raggiungere gli studenti filtrati da un computer?
I ragazzi li raggiungi solo se li ami. Non c’è altro modo. Quando loro sentono che vuoi loro bene e sei disposto a lottare per loro e con loro ti seguono in capo al mondo. E non sto parlando di fare gli amiconi, il più grande tradimento educativo è mettersi alla pari. Sto parlando di aiutarli a conoscersi, di sfidarli e di proteggerli, di non nascondere loro i punti deboli che hanno e di sottolineare i loro punti forti, e far percepire ogni giorno che loro sono sempre molto di più delle loro prestazioni. Se sbagliano qualcosa hanno sbagliato una prova, non sono sbagliati loro. Il mondo dice loro esattamente il contrario: tu vali quanto fai, appari, conquisti. A scuola invece tu sei: per questo l’appello è il momento più importante della giornata scolastica, il momento in cui prendi in carico le loro vite, una per una.
Da tutte le crisi, anche più profonde, nasce qualcosa di positivo. Cosa salvare della Dad per la scuola che verrà?
Non si tratta di buttare o salvare qualcosa. La dobbiamo smettere di chiedere agli oggetti le soluzioni. Così abbiamo fatto con i banchi monoposto. Le soluzioni sono sempre e solo le persone in carne e ossa, che poi useranno degli strumenti migliori per gli scopi che si prefiggono. Noi abbiamo bisogno di una scuola che rimetta al centro la conoscenza come cura di se stessi e del mondo. Finché il sistema scuola ostacolerà la relazione discepolo-maestro niente ci sarà di aiuto. O ripartiamo dall’umano o continueremo a fare discorsi che non cambiano la sostanza, ma sono solo cosmesi o propaganda. La scuola è fatta dell’energia dei ragazzi e noi questa energia la stiamo spegnendo invece di accenderla.
«Andare bene a scuola non è questione di voti, ma di Vita». Quest’anno i voti come andrebbero dati, che cosa va valutato?
I voti vanno dati perché sono il punto di arrivo di un percorso educativo. Come sempre l’importante è tenere separata la prestazione dalla presenza. Un vero rapporto educativo funziona quando, anche dopo aver dato un voto insufficiente, la relazione non si sposta di un millimetro perché il ragazzo ha imparato che ha sbagliato una prova, non è sbagliato lui. In questo periodo dovremmo allentare la pretesa sui voti come li pretendevamo prima e dedicarci a una scuola molto più basata sulla ricerca gratuita della verità e del sapere. Se riusciamo a insegnare solo con lo spauracchio dei voti possiamo stare certi che non sappiamo insegnare, perché la paura serve ad apprendere solo sul breve periodo e non tanto ad apprendere ma a “ripetere” cioè a essere “ammaestrati”. La cultura è un’altra cosa, è un’arte di vivere sapendo guardare il mondo e cercando la verità.
da Il Sole 24 Ore – 26/11/2020 – Maria Piera Ceci