La chiusura fisica delle scuole imposta dal Covid pone delle domande che interrogano la professione docente e il senso stesso dell’educazione
Caro direttore,
mi appassiona il fatto che al di là delle beghe politiche si stia tornando a parlare di scuola e di educazione in un periodo così drammatico come quello che stiamo vivendo.
La cosa più interessante del dibattito che sto seguendo sui giornali è che si sta tornando a chiedersi cosa vuol dire insegnare ed educare in un momento come questo.
Ha scritto Massimo Recalcati (n.d.r.: psicoanalista, saggista e accademico italiano.): “Gli insegnanti che si sono sperimentati in questo anno nel lavoro con la Dad hanno dato prova di tenere conto dell’impossibile nel processo di formazione non arretrando sul loro desiderio di insegnare ma adeguandolo alle asperità imposte dal reale. Essi sanno bene come nel loro lavoro quotidiano non si tratta solo di trasmettere delle nozioni ma di dare innanzitutto prova di una resistenza attiva al potere della distruzione e della morte, testimoniando che la cultura non arretra di fronte al male anche quando esso ha la forma impalpabile di un virus. La pandemia ne ha esaltato l’importanza”.
Per compiere questo lavoro, come hanno scritto alcuni amici sul Corriere della Sera il 10 gennaio, occorre vivere un’esperienza di bene, di positività che vinca la tentazione del nulla in cui tutti siamo costantemente tentati di ricadere.
I tanti esempi, che questa esperienza di positività genera, devono essere conosciuti e i mezzi di comunicazione dovrebbe dare più spazio a questi racconti perché ci possono ridare continuamente speranza.
Questa esperienza di positività deve anche aiutarci a giudicare la realtà. E secondo me questo compito implica porsi una serie di questioni:
1. Innanzitutto, come scrive sempre Recalcati, occorre chiederci “davvero la presenza del Covid, che non si può sottovalutare, è solo qualcosa che ostacola la trasmissione didattica del sapere e i processi di apprendimento?”
In che cosa la ostacola? In che cosa la favorisce? Come aiutare a sviluppare i fattori positivi e limitare gli effetti negativi? La risposta a queste domande dev’essere il frutto di esperienze personali e di studi scientifici e non può non partire dal presupposto innegabile che l’educazione è una relazione.
2. Nello stesso tempo non possiamo non sottovalutare gli effetti a medio e lungo termine che questa situazione può generare. Mi ha colpito che Stefano Vicari, ordinario di neuropsichiatria infantile all’Università cattolica di Roma, affermi in un articolo di Vita: “Non ho mai avuto tanti accessi al pronto soccorso di tentativi di suicidio e di autolesionismo. Abbiamo una quantità di richieste di aiuto addirittura superiore alle nostre possibilità di accoglienza. Il Paese deve avere più consapevolezza che siamo in una situazione particolarmente complessa, in cui gli adolescenti sono i dimenticati”.
I più fragili, i più deboli sono i più colpiti… come tenerne conto? Sicuramente occorre moltiplicare gli sforzi, l’impegno il tempo, l’energia. Quanti amici insegnanti stanno scoprendo che “il Covid non ha imposto la chiusura della scuola ma la sua apertura permanente” (come dice sempre Recalcati). Quanti amici insegnanti rispondono a email, fanno video chiamate ben oltre l’orario scolastico!
Stiamo scoprendo, e questo è per me entusiasmante, che l’insegnamento non è un lavoro limitato ad alcune ore al mattino, ma una vocazione, una passione che ti accompagna in tutta la giornata: nel preparare la lezione in modo più efficace possibile ma anche nel ricercare, sostenere il rapporto con ciascuno di coloro che vedi, per ora, solo attraverso gli schermi. Infatti è innegabile che per sostituire una relazione fisica occorre moltiplicare, intensificare la relazione “virtuale”! Ma occorre tenere conto dei più fragili anche nella scelta di eventuali aperture e di sostegno a realtà che si impegnano in questa direzione.
Chissà se i nostri politici hanno questa consapevolezza?
3. Infine è anche giusto lasciarsi interrogare dal diffondersi della protesta degli studenti che vogliono tornare a scuola. Sono sempre solo dei facinorosi che prima occupavano le scuole per impedire l’attività didattica e ora le occupano perché vogliono l’attività didattica? Vogliono solo protestare o forse capiscono più di noi che l’apprendimento non è solo una trasmissione di saperi ma un processo che implica gestualità e fisicità? Vogliono solo una socialità tra loro o chiedono la presenza di maestri, di adulti che stiano con loro, che li accompagnino nel faticoso ed affascinante cammino della vita?
Che i cosiddetti “nativi digitali” chiedano una relazione fisica, riconoscano l’importanza della carnalità nell’approccio allo studio, alla cultura non è una cosa di poco conto. Come conclude Affinati in una sua intervista al Messaggero, “Dopo aver provato sulla loro pelle cosa significa vivere nella solitudine informatica, sono certo che saranno in grado di dare più valore a quel senso di comunità che oggi latita”.
La situazione presente, a mio parere, genera queste ed altre domande. Tocca ad ognuno, nel proprio impegno quotidiano, dare la propria risposta. Quindi al lavoro!
Alberto Bonfanti – docente di Storia e Filosofia
Il Sussidiario – –