Recentemente è stato diffuso un interessante Manifesto che stimola il dibattito sul futuro della scuola italiana [https://www.change.org/p/manifesto-per-la-nuova-scuola].
L’obiettivo generale è lodevole e condivisibile: una scuola pubblica che ha al centro la crescita della dimensione integralmente umana degli studenti, che potranno diventare cittadini liberi e consapevoli, in grado di contribuire a un autentico progresso della società. In questa scuola l’insegnamento e l’apprendimento toccano tutte le dimensioni dell’essere umano – intellettuale, razionale, affettiva, emotiva, relazionale, corporea – tra loro interconnesse e inscindibili.
Per realizzare questo obiettivo, il Manifesto propone un insieme di elementi interrelazionati per modificare profondamente l’attuale percorso del sistema scolastico. Tra questi, la centralità della trasmissione della conoscenza e del sapere, il ruolo dell’insegnante come esperto, motivatore e trasmettitore libero della passione per la conoscenza e del sapere agli studenti, anche in un senso personalizzato, l’ora di lezione disciplinare come unico indispensabile progetto e la classe di 20 studenti al massimo. Si chiede anche la deburocratizzazione del lavoro dell’insegnante e che tutti gli strumenti e i metodi di insegnamento, compresi quelli legati all’uso delle tecnologie digitali, tornino a essere dei semplici mezzi.
Usando anche espressioni squalificanti come “progettificio” o “didattichese”, il Manifesto critica fortemente il percorso fatto dal sistema scolastico italiano negli ultimi vent’anni e soprattutto la focalizzazione sull’acquisizione di “competenze”, considerate come una categoria restrittiva nata nel mondo aziendale e produttivo. Le innovazioni didattiche digitali sono viste con poco entusiasmo e la “didattica a distanza” (Dad) è definitivamente bocciata.
Il risultato generale è una chiamata a smantellare una serie di riforme “devastanti” fatte nelle due decadi scorse con interventi precisi e profondi, come, ad esempio, rivedere l’autonomia scolastica, eliminare i test Invalsi e l’alternanza scuola-lavoro, e tutte le attività burocratiche considerate inutili. In un certo senso, il Manifesto propone una “reinnovazione” del sistema scolastico italiano che sarebbe un “ritorno al futuro”, ma sappiamo che non è possibile ritornare alla situazione di vent’anni fa.Non è l’intenzione di questo contributo entrare nel merito di ognuna delle critiche e delle proposte del Manifesto. Sono invece interessato al potenziale di cambiamento sistemico che ha il documento e il movimento di firmatari che lo ha sottoscritto. Per questo è necessario considerare l’insieme della complessità e delle sfide che qualsiasi cambiamento sistemico della scuola italiana dovrà affrontare.
Ricordo una lunga conversazione con il professore Tullio De Mauro in cui si ragionava di scuola. Per sottolineare la complessità dei sistemi di istruzione a De Mauro bastava una battuta. «La scuola non è un sostantivo singolare», diceva, è «plurale». E aggiungeva: «La scuola è l’organizzazione più complessa della società». Lo evidenziano anche i dati del Miur che per l’anno scolastico 2020-21 identificano 8.183 istituzioni scolastiche statali, 40.658 sedi, 369.048 classi, 683.975 posti comuni e di sostegno, e 7.507.484 alunni di variegate età, abilità e tutti in percorsi di crescita, cioè in costante cambiamento e apprendimento. Inoltre il sistema scuola non esiste in isolamento dal mondo circondante che, mai come negli ultimi 25 anni, è entrato in una accelerazione di cambiamento scientifico e tecnologico in tutti gli ambiti della società: economia, industria, lavoro, organizzazioni e, certamente, il mondo educativo.
La trasformazione scientifica e tecnologica si intreccia con le cosiddette sfide globali come l’ambiente, la diseguaglianza, e tante altre, come ad esempio, quelle contenute nell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile delle Nazione Unite. L’intreccio inseparabile è alla base del mondo complesso del 21° secolo e mi piace immaginare che è il territorio del viaggio della vita, innanzitutto dei giovani ragazzi e ragazze che oggi vanno a scuola e che devono attrezzarsi per costruire una vita piena. Basti pensare che oggi un ragazzo di 15 o 20 anni, con la aspettativa di vita già esistente, potrebbe raggiungere quasi la fine del secolo.
Se consideriamo il progresso della genetica questa ipotesi diventa una certezza. Così, se questo è il territorio del viaggio della vita nel 21° secolo, i ragazzi sono i viaggiatori o i viandanti che la scuola deve contribuire ad attrezzare. Non a caso, l’educazione, l’apprendimento, la scuola, sono stati al centro di proposte teoriche e pratiche da parte di studiosi come Edgar Morin, Howard Gardner, Ken Robinson, e policy maker di istituzioni come Unesco, Ocse, Cec, e Nrc (Usa).
Nella Fondazione Mondo digitale ho disegnato il “Modello di educazione per la vita nel 21° secolo”, con un’attitudine aperta alle possibilità esistenti ed emergenti e ho cercato di mettere insieme in un unico schema (non statico) gli elementi che possono contribuire all’educazione e allo sviluppo pieno di una persona come cittadino responsabile: non solo contenuti disciplinari codificati, ma anche competenze chiave o trasversali, valori fondamentali, aspetti caratteriali. E poi le diverse modalità di insegnamento (sempre in evoluzione), in contesti più o meno formali, in spazi tradizionali e innovativi, in tempi diversificati.
Al centro del modello ci sono le persone, gli studenti, gli insegnanti, e sempre di più una comunità educante, perché come dice il proverbio africano: «Ci vuole una comunità o un villaggio per crescere un bambino». Il modello cerca di generare consapevolezza sulle tante possibilità e combinazioni per una educazione per la vita, non cerca di prescrivere, perché è il ruolo dell’insegnante, dei ragazzi, della scuola di scegliere e applicare i migliori percorsi. Certamente le migliore scelte verranno da insegnanti e presidi curiosi, appassionati, esperti, consapevoli e aperti, che lavorando insieme per il bene dei ragazzi sedimenteranno il futuro del paese. E questo mi fa pensare che una scuola concentrata principalmente sulla ora di lezione frontale potrebbe essere limitante. Come siamo messi? Sappiamo che la scuola italiana ha giocato un ruolo storico centrale nella alfabetizzazione di milioni di persone e sappiamo anche che adesso la scuola vive un periodo di grande crisi riflessa in una varietà di indicatori che posizionano il paese tra i meno sviluppati dell’Europa. Basta riprendere alcuni degli aspetti sottolineati dal Pnrr riguardo l’istruzione e la ricerca: – carenze strutturali nell’offerta di servizi di educazione e istruzione primarie; – gap nelle competenze di base, alto tasso di abbandono scolastico e divari territoriali- bassa percentuale di adulti con un titolo di studio terziario- skills mismatch tra istruzione e domanda di lavoro- basso numero di ricercatori e perdita di talenti.E altri come l’altissimo numero di Neet, la povertà educativa, e il basso status degli insegnanti italiani comparati agli insegnanti di altri paesi (terzultimi tra 35 paesi nel Global Teacher Status Index 2018).
E poi c’è un altro elemento cruciale di sottofondo, la difficoltà dell’Italia di implementare processi d’innovazione sistemici di lungo periodo. Nella visione della Fmd, una innovazione educativa sistemica coinvolge simultaneamente il contenuto educativo, gli strumenti, ambienti e programmi educativi, la gestione dei processi didattici e della scuola, la formazione degli insegnanti e presidi, la governance e le politiche educative a livello nazionale/regionale, e una varietà di processi sotto sistemici spinti dalla scuola e da altri attori del mondo scolastico, come le organizzazioni del terzo settore. E non solo, il processo deve avere il tempo, le risorse e la stabilità per arrivare a un impatto visibile e misurabile.
Credo che la proposta del “Manifesto per la nuova scuola” appartenga a questa categoria di innovazione. Il problema è che questo livello di innovazione educativa raramente accade in Italia, soprattutto se una proposta viene posizionata in una contrapposizione conflittuale. In pratica, la storica instabilità politica e la mancanza di priorità data alla scuola da molto tempo si è tradotta frequentemente in processi frammentati che si interrompono senza un impatto di miglioramento duraturo e che, invece, possono finire per incrementare la carica burocratica e indebolire la possibilità che ha l’insegnante di fare ricerca per identificare e applicare una effettiva didattica personalizzata. Tuttavia sono tanti gli insegnanti, le scuole, anche insieme ad altre organizzazioni, che cercano di innovare per offrire il meglio agli studenti in viaggio attraverso il “territorio della vita nel 21° secolo”.
Adesso arriva un’opportunità storica, e forse irripetibile, con il finanziamento messo a disposizione dal Recovery Fund europeo. Ci auspichiamo che questa sarà la volta buona per trasformare sistemicamente la scuola italiana, migliorando l’infrastruttura e raccogliendo e potenziando tante esperienze educative positive che esistono nel paese. Ci sarà bisogno di un Patto nazionale per la scuola italiana, per assicurare la stabilità e lungimiranza necessarie. Questo Patto richiede una attitudine generosa da tutte le parti, con un solo grande obiettivo, dare ai ragazzi italiani la miglior chance di attrezzarsi per crescere e sviluppare una vita piena nei tanti anni avvenire. Non c’è una formula più effettiva per assicurare simultaneamente il futuro dell’Italia.
da Il Sole 24 Ore 25 giugno 2021
di Alfonso Molina – Direttore scientifico Fondazione Mondo digitale e personal chair in Strategie delle tecnologie all’Università di Edimburgo