Per migliorare una scuola la strategia della rete di scuole è la via migliore. Il futuro dell’autonomia sta forse nella creazione di un sistema di reti. Il principio della cooperazione tra le scuole sta conquistando sempre più terreno nell’ambito delle strategie messe in campo per migliorarle e, aspetto non secondario, risulta una scelta vincente.
In una realtà educativa dove talvolta si ha l’impressione che l’iniziativa delle persone sia scavalcata dal linguaggio e dall’impianto culturale spesso aridamente volto a sostenere le ragioni dello sviluppo economico, questa constatazione costituisce una bella notizia.
Disponiamo ormai di una serie di dati ed esperienze che dimostrano in modo convincente che l’associazione/collaborazione tra docenti di istituti diversi costituisce un fattore incentivante a ripensare la comunicazione didattica, le modalità di valutazione, l’organizzazione interna eccetera. Contro l’opinione di chi pensa che le scuole sono gelose del loro capitale professionale e sarebbero diffidenti a condividerlo con altri (il che in parte è anche vero) e soprattutto contro la tendenza a creare graduatorie tra le scuole (i bravi, i meno bravi e i mediocri), sta la realtà delle reti tra scuole come opportunità per rendere più efficace l’incontro con gli allievi e più incisiva la qualità dell’insegnamento/apprendimento, a prescindere dalla categoria nella quale si vorrebbe inquadrare ciascuna scuola.
La pratica dei Network for School Improvement è oggi largamente diffusa e molta acqua è passata sotto i ponti da quando furono avviati i primi tentativi, ormai 30 anni fa, nel 1991 per iniziativa della Fondazione Annenberg di Los Angeles.
Tra le esperienze più note non si possono non citare i cospicui finanziamenti della Fondazione di Melinda e Bill Gates per sostenere progetti di miglioramento scolastico mediante la creazione di reti scolastiche, il progetto Network for College Success di Chicago ideato e realizzato per potenziare il sistema scolastico secondario e migliorare il transito degli studenti all’università, le Professional Learning Communities sudcoreane e la singolare ma quanto mai stimolante esperienza cosiddetta Quality Teaching Rounds realizzata da gruppi di insegnanti australiani per auto-regolare e valutare il proprio insegnamento.
Naturalmente queste sintetiche e frettolose citazioni (chi è interessato trova facilmente nel web ampie e dettagliate informazioni) meriterebbero ciascuna un dettagliato approfondimento per cogliere le traiettorie lungo le quali si sviluppano, ciascuna con le proprie caratteristiche e il loro contesto di riferimento. Ma ciò che le accomuna è che tutte sono ispirate all’idea del superamento dell’individualismo educativo: la scuola migliore è quella nella quale si lavora di squadra e non ci si affida alla brillantezza e genialità di qualche docente.
Numerose altre iniziative in atto in varie parti del mondo meriterebbero di essere ricordate, senza trascurare quelle realizzate in Italia (com’è noto esiste già una minuziosa normativa che regola la creazione e il funzionamento di reti), tra cui spiccano quelle finalizzate alla sperimentazione di nuove pratiche didattiche, che costituisce oggi una delle principali tematiche che anima il confronto pedagogico e politico scolastico.
Perché in vista del miglioramento puntare sulla rete anziché più semplicemente sull’autonomia di ciascun istituto (l’una cosa del resto non esclude l’altra)? Le ragioni sono molteplici.
Lavorare in rete favorirebbe la creazione di uno spirito di squadra e la realizzazione di un confronto virtuoso all’interno di un progetto condiviso e senza la preoccupazione di essere giudicati; moltiplicherebbe la circolazione di informazioni e di confronti sul piano organizzativo e valutativo; solleciterebbe lo scambio di pratiche didattiche, con la possibilità di verificarle in atto e optare per quelle più idonee all’apprendimento in quella determinata situazione (non esiste un metodo universale adatto a tutte le situazioni); incoraggerebbe nuove metodologie di insegnamento; sosterrebbe le scuole che procedono con maggiore difficoltà; infine, consentirebbe di stabilire con il territorio rapporti più dinamici e incisivi nella prospettiva della comunità educante o, secondo la formulazione più recente proposta dal ministro Bianchi, dei patti educativi di comunità.
Non sarebbe male, detto incidentalmente, che intorno a questo obiettivo – sulla cui realizzazione tanto si discusse nel dibattito scolastico tra gli anni 70 e 80, poi oscurato dalle spinte del funzionalismo neopositivistico diventato egemone a partire dal decennio successivo – si tornasse a riflettere come idea-guida del cambiamento scolastico.
L’opzione a favore della rete scolastica – quando non è un episodio occasionale legato a obiettivi circoscritti e limitati nel tempo – come strategia per il cambiamento/miglioramento disegna un sistema scolastico molto diverso sia dal modello statalista (le scuole governate e gestite da una autorità superiore secondo regole ben codificate) sia dal modello competitivo modellato sugli schemi della cultura economica (fino alla decisione estrema, in alcune realtà anglosassoni, della chiusura della scuola quando il rendimento è insufficiente).
I princìpi che regolano la costituzione e il funzionamento della rete sono infatti ispirati a una visione educativa e sociale che fa leva sulla cooperazione, sui bisogni delle persone, sul mutuo aiuto, sull’idea che la comunità di pratica è in grado di socializzare soluzioni alla cui costruzione ciascun istituto (anche quello che potrebbe essere catalogato come mediocre) può portare il suo importante contributo.
La rete è una dilatazione dell’autonomia e il futuro dell’autonomia sta forse nella creazione di un sistema di reti. Certamente la rete, quando è ben partecipata, è un’ottima occasione di miglioramento.
Giorgio Chiosso, ilSussidiario.net, 14.12.21