Non basta snocciolare i miliardi che arrivano dall’Ue in quota al Pnrr: per governare la scuola ci vuole un’idea. Quella di Bianchi è dirigistica.
In occasione della conferenza stampa del Governo del 7 ottobre sugli impegni di spesa del Pnrr in relazione alla scuola e all’università, sono stati esposti i piani di finanziamento e di riforma dei rispettivi ambiti. Su scuola e istruzione alquanto confusi, a dire il vero.
Si parte con le riforme. Quante sono, quali sono? Il ministro Bianchi ne enuncia tre che poi nell’illustrazione delle misure diventano quattro (o cinque?). Nell’ordine: la riforma degli istituti tecnico-professionali (o della formazione professionale? Boh!), quella degli gli istituti tecnici superiori (Its) e quella dell’orientamento a partire dalle scuole medie. En passant si fa riferimento al nuovo sistema di reclutamento dei docenti e alla formazione continua del personale insegnante (si tratta di una nuova riforma? Si tratta di un aggiustamento delle normative esistenti? Boh!).
Come quarta (o quinta) riforma si accenna come se niente fosse alla “riorganizzazione dell’intero sistema didattico” (!). Confusa anche la parte degli investimenti: dovrebbero essere poco più di 17 miliardi, ma il ministro ne annuncia 13 per gli ambienti e 5,4 per la didattica. I conti non tornano.
L’intervento del premier Draghi sembra rimettere le cose a posto. Le riforme per la scuola, dice, sono sei da portare a termine con il Pnrr entro il 2022, i miliardi di investimento sono 17, cui 3 per affrontare l’emergenza asili nido. Il ministro Bianchi completa in seguito quest’ultima notazione: entro novembre sono previsti bandi per 5 miliardi. Si tratta di 3 miliardi per asili e scuole dell’infanzia (e questo lo si sapeva), con l’aggiunta di: 400 milioni per le mense, 300 milioni per le palestre, 800 milioni per nuove scuole e 500 per la ristrutturazione degli istituti e la messa in sicurezza.
Un’occhiata anche al versante dell’università. La ministra Messa enuncia 6 miliardi di finanziamento (di cui 5 devono essere messi a bando entro la fine di quest’anno e 1 all’inizio del prossimo) per sostenere circa 60 progetti. Quali? Leggiamo dalla stampa che nel dettaglio le misure sono quattro: partenariati estesi alle università, ai centri di ricerca, alle aziende per il finanziamento di progetti di ricerca di base (investimenti per 1,61 miliardi di euro); rafforzamento delle strutture di ricerca per la creazione di “campioni nazionali di ricerca e sviluppo” su alcune tecnologie abilitanti, individuati come Centri nazionali (investimenti per 1,6 miliardi di euro); creazione e rafforzamento di “Ecosistemi dell’innovazione” come leader territoriali di ricerca e sviluppo (investimenti per 1,3 miliardi di euro); realizzazione di un sistema integrato di infrastrutture di ricerca e infrastrutture tecnologiche di innovazione (investimenti per 1,58 miliardi di euro). Si capisce che i finanziamenti in ricerca sono destinati alle strutture di ricerca applicata. In effetti, la ministra spiega: “Abbiamo scelto di cominciare con la ricerca più orientata al business perché richiede uno sforzo organizzativo gravoso, ma non abbiamo dimenticato la ricerca pura”.
Torniamo su scuola e istruzione. I settori posti sotto i riflettori sono tutti di fondamentale importanza. Il nostro Paese, per esempio, soffre di un ritardo cronico nella delineazione di un canale di istruzione e formazione professionale in grado di dialogare con la formazione professionale presente sul territorio. Altrettanto dicasi degli istituti tecnici superiori, troppo pochi forse (107 in tutta Italia) e poco frequentati (18mila studenti). Questo segmento che salda formazione tecnica e introduzione al lavoro è da ripensare e valorizzare.
Per quanto riguarda la categoria docente, sappiamo perché nel nostro Paese non è valorizzata: perché l’insegnamento non è considerato una professione ma un lavoro impiegatizio. E l’aggiornamento dovrebbe essere certamente continuo e ricorrente, ma libero e non appaltato ai soliti enti statali.
Prevediamo già la risposta: sì, è impellente passare dalla lezione frontale alle lezione aperta, partecipata, collaborativa. Bene. Ma quello che abbiamo visto in questi mesi di pandemia, cioè la Dad, ovvero l’uso eccessivo delle strumentazioni che in qualche modo distanziano gli alunni dai docenti che dovrebbero prendersene cura, non ha insegnato nulla? E perché la riforma dei contenuti della didattica, cioè della modalità con cui concepire, guardare e sovvenire ai bisogni dello studente la deve fare il Miur? Il Miur potrebbe/dovrebbe al più indicare delle priorità ma non obbligare a seguire una “certa” didattica.
Il momento che stiamo attraversando, che il sistema Paese sta attraversando è troppo delicato per buttare via un’occasione come questa. L’occasione di rimettere la didattica in mano ai responsabili dell’educazione dei giovani che sono anzitutto i docenti. Dovranno essi, tutti quanti, ripensare alla didattica, ma in maniera che faccia parte del loro cammino umano e professionale e non di una moda da replicare. Dunque, ben vengano le riforme, ma attenzione agli eccessi di statalismo.
– Fabrizio Foschi