Un dramma irrompe nella scuola: quello di Luca, liceale romano 17enne che nel 2019 ha scelto di suicidarsi. Ora si parla di “abuso di mezzi di correzione”.
Uno studente di 17 anni nel luglio del 2019 si tolse la vita suicidandosi nel garage di casa, impiccandosi con una corda.
Il giovane avrebbe avuto problemi di apprendimento, problemi che avrebbero portato a ripetute prese in giro allo studente proprio da parte del professore, un atteggiamento che avrebbe portato il ragazzo al gesto estremo.
“Gli mise una nota indegna – ricorda un ex compagno di classe sentito dal Messaggero nel 2021 – visibile a tutti nel registro di classe, il prof usò parole pesanti, scrisse che meglio di lui avrebbe fatto un bambino di 5 anni, pur sapendo che Luca era dislessico. Lui ci rimase malissimo, credo si sentisse denigrato e discriminato. Ma io non credo che il professore si rendesse conto”.
Nel suicidio di Luca un vuoto che gli adulti devono (almeno) capire.
da IL SUSSIDIARIO – 19.01.2023 – Federico Pichetto
Una storia atroce con un’accusa ancora più atroce riemerge dalle cronache della Capitale. È il 2019, Luca – il nome è di fantasia – è un liceale di 17 anni che decide che vivere sia diventato qualcosa di insopportabile: così prende una corda e si impicca. Lasciando tutti, genitori e amici, interdetti. Ma quel suicidio si rivela sintomo di un dolore indicibile: il ragazzo, infatti, ha diversi disturbi specifici di apprendimento che rendono ardue le lezioni di matematica.
L’insegnante, e questa è l’accusa che il sostituto procuratore oggi muove, è consapevole di tutto questo e – nonostante ciò – non smette di umiliarlo pubblicamente davanti a tutta la classe. I compagni lo sanno, Luca dice loro di non sopportare più quel clima e quelle vessazioni, che si sarebbe fatto del male. Nessuno però immagina quanto sarebbe poi accaduto. Sono proprio i compagni che dopo il tragico gesto parlano e che consentono alle indagini di orientarsi verso quel docente che poi diventa, nell’impianto accusatorio ancora tutto da verificare, il colpevole dell’inquietante reato di “abuso dei mezzi di correzione”.
La giustizia dovrà fare il suo corso e stabilire responsabilità precise, se saranno presenti e riscontrabili. Quello che è certo è che nessuno conosce Luca come nessuno conosce quell’insegnante. Tra loro c’era un rapporto che era nato con una vocazione precisa: permettere a entrambi di crescere. Adesso uno di loro due è morto e l’altro deve rispondere di ombre sciagurate.
Un tempo per insegnare latino a Paperino un docente aveva l’onere di conoscere il latino, oggi ha la responsabilità di conoscere Paperino. La scuola, mai come in questo frangente storico, è una relazione, un rapporto in cui veicolare interessi, passioni e aperture. Fuori da questo rapporto possiamo trasmettere anche le cose più alte, anche i valori più autentici, ma lasciamo i ragazzi soli, in preda alle loro ansie, alle aspettative dei genitori, feriti da quel senso di inadeguatezza che è il tratto distintivo di una generazione e che le moderne diagnosi – con la pretesa di fornire aiuto o alibi – finiscono per amplificare. Quanti ragazzi e ragazze non ce la fanno più, quanti sentono un vuoto incolmabile che urla pietà e che accetta qualunque cosa per essere anestetizzato, dagli psicofarmaci alla cannabis, dalle scommesse compulsate sul cellulare al sesso praticato nelle sue forme più disumane ed estreme. Fino allo sballo del sabato sera, alla cocaina, alla violenza esercitata per noia.
Nell’abisso del non senso i nostri fratelli e le nostre sorelle, i nostri figli e le nostre figlie, non sanno più reggere l’urto con l’ingiustizia, con l’umiliazione, con l’errore e il fallimento. La morte diventa la cosa più semplice e la cosa più desiderabile.
Gli insegnanti maneggiano materia incandescente, la stessa di cui ciascuno di loro è fatto. Più saranno capaci di stare di fronte a se stessi più saranno in grado di evitare che esistano altri Luca. Più saranno capaci di insegnare latino. E di voler bene, davvero, a Paperino.