Venerdì 27 gennaio, alle ore 20.00, in occasione del Giorno della Memoria, verrà trasmesso su Rai Scuola il film “Edith”, un progetto cinematografico realizzato con la partecipazione delle studentesse e degli studenti di una classe del Liceo Coreutico Statale “Tito Livio” di Milano.
Ispirato a una vicenda realmente accaduta, il film, ambientato nel 1944, narra di una giovane ragazza ungherese, sfuggita alla drammatica sorte che ha accomunato milioni di internati nei campi di concentramento nazisti, grazie alla sua passione per la danza e alla fede in un mondo migliore.
Per non dimenticare la Shoah: “La rete italiana della Memoria”
La conoscenza della storia della Shoah, a sostegno della riflessione dei nostri giovani, è obiettivo dell’iniziativa la “Rete italiana della Memoria”. Si tratta di una Rete fra Musei e Memoriali della Shoah, fra “luoghi” che da Trieste a Milano, da Ferrara a Carpi, da Roma a Tarsia impongono di riflettere sul valore irrinunciabile del rispetto dei diritti umani, contro ogni forma di intolleranza e violenza.
Nota prot. n. 170 del 23 gennaio 2023
Liliana Segre
Liliana Segre, senatrice a vita e già deportata nei campi di concentramento nazista, sopravvissuta all’Olocausto.
“Quando uno è così vecchio come me e ha visto prima l’orrore, e poi, arriva a sentire che si nega addirittura quel che è stato – ed è così da tanti anni, dalla fine della guerra circa – a un certo punto, la coscienza si sveglia. E ritiene che fra qualche anno della Shoah ci sarà una riga sui libri di storia, e poi nemmeno quella”.
“Il giorno della Memoria è inflazionato, la gente è stufa di sentire parlare degli ebrei. E anche io fra un poco, toglierò il disturbo, visto che non posso nemmeno salire sul tram che porterà la scritta “Memoriale della Shoah”, perché devo girare con la scorta a causa delle minacce che ricevo”.
A Milano infatti girerà il tram n°19 con la scritta “Memoriale della Shoah”, dove la senatrice non potrà salire per le minacce di morte.
“Il mio è un pessimismo naturale -continua a dire Liliana Segre nel corso della conferenza stampa- su questo argomento, dopo che le idee, le proposte, le speranze e le iniziative che possono venire da una vecchia come me non vengano accolte con il rispetto dovuto. Capisco che la gente dice da anni ‘basta con questi ebrei, che cosa noiosa’. Quando uno ha visto l’orrore e ormai ne può parlare solo con 3-4-5 persone al massimo, perché gli altri per fortuna non l’hanno visto, certo che è più noioso degli altri “.
Ogni anno per Liliana Segre è una fitta al cuore pensando a chi non è tornato da quei campi di morte, a chi è “morto per la colpa di esser nato”.
“Fra pochi giorni ci sarà un totem alla stazione Centrale che spiega come si raggiunge il Memoriale. Ma sono 30 anni che lo chiedo: sono contenta perché farò in tempo a vederlo”.
Le Pietre di inciampo: “Per me dovrebbero essere un pochino più alte del livello della strada, in modo che ci si possa mettere un fiore, o una pietra, come nei cimiteri ebraici. Mi spiace che vengano nascoste da bici, macchine in sosta, quando non vernice nera, che vuol dire ‘fai schifo, tu che sei stato condannato per la colpa di esser nato. Ecco, penso sia importante portare i ragazzi a conoscere questi nomi, che è veramente essere te stesso, anche se solo una persona su mille se ne accorgerà, lì c’è il nome di una persona che ha fatto la scelta”.
“Ci sono migliaia di Pietre di inciampo in tutta Europa, invitano a fermarsi, a dire una preghiera, a dire quel nome. Come le mie pietre sacre, quelle posate per mio padre e i miei nonni: sono la tomba che non c’è stata permessa. Ma penso anche alle pietre dedicate ai bambini. Ce n’è una anche per un neonato deportato il giorno dopo esser nato. Davanti al bambino innocente, tutto il mondo si deve inchinare. E dire: mai più!”
Il ghetto di Terezin
Il ghetto di Terezin durante la seconda guerra mondiale fu il maggiore campo di concentramento sul territorio della Cecoslovacchia. Fu costruito come campo di passaggio per tutti gli ebrei del cosiddetto “Protettorato di Boemia e Moravia”, istituito dai nazisti dopo l’occupazione della Cecoslovacchia, prima che gli stessi venissero deportati nei campi di sterminio nei territori orientali. Più tardi vi furono deportati anche gli ebrei della Germania, Austria, Olanda e Danimarca. Nel periodo in cui durò il ghetto – dal 24 novembre 1941 fino alla liberazione avvenuta l’8 maggio 1945 – passarono per lo stesso 140.000 prigionieri. Proprio a Terezin perirono circa 35.000 detenuti. Degli 87.000 prigionieri deportati a Est, dopo la guerra fecero ritorno solo 3.097 persone.
Fra i prigionieri del ghetto di Terezin ci furono all’incirca 15.000 bambini, compresi i neonati. Erano in prevalenza bambini degli ebrei cechi, deportati a Terezin insieme ai genitori, in un flusso continuo di trasporti fin dagli inizi dell’esistenza del ghetto. La maggior parte di essi morì nel corso nel 1944 nelle camere a gas di Auschwitz. Dopo la guerra non ne ritornò nemmeno un centinaio e di questi nessuno aveva meno di quattordici anni. I bambini sopportarono il destino del campo di concentramento assieme agli altri prigionieri di Terezin.
Dapprima i ragazzi e le ragazze che avevano meno di dodici anni abitavano nei baraccamenti assieme alle donne; i ragazzi più grandi erano con gli uomini. Tutti i bambini soffrirono assieme agli altri le misere condizioni igieniche e abitative e la fame. Soffrirono anche per il distacco dalle famiglie e per il fatto di non poter vivere e divertirsi come bambini. Per un certo periodo i prigionieri adulti riuscirono ad alleviare le condizioni di vita dei ragazzi facendo sì che venissero concentrati nelle case per i bambini.
La permanenza nel collettivo infantile alleviò un tantino, specialmente sotto l’aspetto psichico, l’amara sorte dei piccoli prigionieri. Nelle case operarono educatori e insegnanti prigionieri che riuscirono, nonostante le infinite difficoltà e nel quadro di limitate possibilità, a organizzare per i bambini una vita giornaliera e perfino l’insegnamento clandestino. Sotto la guida degli educatori i bambini frequentavano le lezioni e partecipavano a molte iniziative culturali preparate dai detenuti. E non furono solo ascoltatori: molti di essi divennero attivi partecipanti a questi avvenimenti, fondarono circoli di recitazione e di canto, facevano teatro per i bambini. I bambini di Terezin scrivevano soprattutto poesie. Una parte di questa eredità letteraria si è conservata.
L’educazione figurativa veniva organizzata nelle case dei bambini secondo un piano preciso. Le ore di disegno erano dirette dall’artista Friedl Dicker Brandejsovà. Il complesso dei disegni che si è riusciti a salvare e che fanno parte delle collezioni del Museo statale ebraico di Praga, comprende circa 4.000 disegni. I loro autori sono per la gran parte bambini dai 10 ai 14 anni.
Utilizzavano i più vari tipi e formati della pessima carta di guerra , ciò che potevano trovare, spesso utilizzando i formulari già stampati di Terezin, le carte assorbenti. Per il lavoro figurativo i sussidi a disposizione non bastavano e i bambini dovevano prestarseli a vicenda.
Sotto l’aspetto tematico i disegni si possono suddividere in due gruppi fondamentali: da una parte di disegni a tematica infantile, in cui i piccoli autori tornavano alla loro infanzia perduta. Disegnavano giocattoli, piatti pieni di cose da mangiare, raffiguravano l’ambiente della casa perduta.
Disegnavano e dipingevano prati pieni di fiori e farfalle in fiore e farfalle in volo, motivi di fiaba, giochi di bambini. La maggior parte della collezione comprende questo tipo di disegni. Il secondo gruppo è formato da disegni con motivi del ghetto di Terezin.
Raffigurano la cruda realtà in cui i bambini erano costretti a vivere. Qui incontriamo i disegni delle caserme di Terezin, dei blocchi e delle strade, dei baraccamenti di Terezin con i letti a tre piani, i guardiani. Ma i bambini disegnavano anche i malati, l’ospedale, il trasporto, il funerale o un’esecuzione.
Nonostante tutto però i piccoli di Terezin credevano in un domani migliore. Espressero questa loro speranza in alcuni disegni in cui hanno raffigurato il ritorno a casa. Sui disegni c’è di solito la firma del bambino, talvolta la data di nascita e di deportazione a Terezin e da Terezin. La data di deportazione da Terezin è anche in genere l’ultima notizia del bambino. Questo è tutto quanto sappiamo sugli autori dei disegni, ex prigionieri bambini del ghetto nazista di Terezin. La stragrande maggioranza dei bambini di Terezin morì. Ma è rimasto conservato il loro lascito letterario e figurativo che a noi parla delle sofferenze e delle speranze perdute.
(Dr. Anita Frankovà, Direttore del museo ebraico di Praga)
Disegni e poesie dei bambini di Terezin
La comunità ebraica di Theresienstadt si assicurò che tutti i bambini deportati potessero continuare il loro percorso educativo. Quotidianamente si tenevano lezioni ed attività sportive; inoltre la comunità riuscì a pubblicare una rivista illustrata, Vedem, che trattava di poesia, dialoghi e recensioni letterarie ed era completamente prodotta da ragazzi di un’età compresa tra i dodici ed i quindici anni.
L’insegnante d’arte Friedl Dicker-Brandeis creò una classe di disegno per bambini nel ghetto: il risultato di questa attività furono oltre quattromila disegni che Dicker-Brandeis nascose in due valigie prima di essere deportata ad Auschwitz. Questa collezione riuscì a scampare alle ispezioni naziste e venne riscoperta al termine del conflitto, dopo oltre dieci anni. Molti di questi disegni possono oggi essere ammirati al Museo ebraico di Praga dove la sezione archivio dell’Olocausto è responsabile dell’amministrazione della collezione di Terezín.
Terezin
Sono stato bambino tre anni fa.
Allora sognavo altri mondi.
Hanus
Disegno di E. Taussigovà
TEREZIN
Pesanti ruote ci sfiorano la fronte
e scavano un solco nella nostra memoria.
Da troppo tempo siamo una schiera di maledetti
che vuole stringere le tempie dei suoi figli
con le bende della cecità.
Quattro anni dietro a una palude
in attesa che irrompa un’acqua pura.
Ma le acque dei fiumi scorrono in altri letti,
in altri letti,
sia che tu muoia o che tu viva.
Non c’è fragore d’armi, sono muti i fucili,
non c’è traccia di sangue qui: nulla,
solo una fame senza parole.
I bambini rubano il pane e chiedono soltanto
di dormire, di tacere e ancora di dormire …
Pesanti ruote ci sfiorano la fronte
e scavano un solco nella nostra memoria.
Neppure gli anni potranno cancellare
tutto ciò.
Anonimo
Nostalgia della casa
E’ più di un anno che vivo al ghetto,
nella nera città di Terezin,
e quando penso alla mia casa
so bene di cosa si tratta.
[…]
Che arrivi dunque quel giorno
In cui ci rivedremo, mia piccola casa!
Ma intanto preziosa mi sei
Perché mi posso sognare di te.
1943 Anonimo
Disegno di Pavel Sonneschein
Vorrei andare sola
Vorrei andare sola
dove c’è un’altra gente migliore,
in qualche posto sconosciuto
dove nessuno più uccide.
Ma forse ci andremo in tanti
verso questo sogno,
in mille forse …
e perché non subito?
Alena Synková (1926, sopravvisuta)
La canzone dell’uccello
Prova, amico, ad aprire il tuo cuore alla bellezza
quando cammini tra la natura
per intrecciare ghirlande coi tuoi ricordi:
anche se le lacrime ti cadono lungo la strada,
vedrai che è bello vivere.
1941 Anonimo
Disegno di Margit Koretzovà
Una sera di sole
In una sera di sole, sotto l’azzurro del cielo,
sotto le gemme fiorite di un robusto castagno,
me ne sto seduto nella polvere del cantiere.
E’ un giorno come ieri, un giorno come tanti.
[…]
Ogni cosa fiorisce e senza fine sorride.
Vorrei volare, ma come, ma dove?
Se tutto è in fiore, oggi mi dico,
perché io non dovrei? E per questo resisto!
1944 Anonimo
Disegno di Hana Grunfeldovà
Vennero deportati a Theresienstadt circa 144.000 ebrei, dei quali un quarto (33.000) morì nel campo principalmente a causa delle pessime condizioni (fame, stress, e malattie, principalmente di tifo esantematico verso la fine della guerra). Circa 88.000 vennero deportati successivamente ad Auschwitz e presso altri campi di sterminio. Quando la guerra finì solo 17.247 erano sopravvissuti.
Disegno di Doris Weiserovà
Il topolino
In fondo al nido il topolino
si cerca una pulce nel pelo fino.
Si dà da fare, fruga e rifruga,
ma non la trova, non ha fortuna.
Gira di qui, gira di là,
ma la pulcetta non se ne va.
Ed ecco arriva il papà topo,
che al suo pelo fa un sopralluogo:
Ecco che acciuffa quella pulcetta
e poi nel fuoco lesto la getta.
Il topolino corre diretto
ad invitare il suo connetto:
“Menù del giorno
pulcetta al forno”.
Koleba
Addio
Tutti gli istanti felici
sono perduti per sempre,
e non ho più la forza
di proseguire il cammino.
Ancora una volta, una sola,
tenere il tuo capo tra le mani,
poi chiudere gli occhi, e in silenzio
andarmene verso le tenebre …
Anonimo
Terezin
Una macchia di sporco dentro sudice mura
e tutt’attorno il filo spinato:
30.000 dormono
e quando si sveglieranno
vedranno il mare
del loro sangue.
Sono stato bambino tre anni fa.
Allora sognavo altri mondi.
Ora non sono più un bambino,
ho visto gli incendi
e troppo presto sono diventato grande.
Ho conosciuto la paura,
le parole di sangue, i giorni assassinati:
dov’è il Babau di un tempo?
Ma forse questo non è che un sogno
e io ritornerò laggiù con la mia infanzia.
Infanzia, fiore di roseto,
mormorante campana dei miei sogni,
come madre che culla il figlio
con l’amore traboccante
della sua maternità.
Infanzia miserabile catena
che ti lega al nemico e alla forca.
Miserabile infanzia, che dentro il suo squallore
già distingue il bene e il male.
Laggiù dove l’infanzia dolcemente riposa
nelle piccole aiuole di un parco,
laggiù, in quella casa, qualcosa si è spezzato
quando su me è caduto il disprezzo:
laggiù nei giardini o nei fiori
o sul seno materno, dove io sono nato
per piangere …
Alla luce di una candela m’addormento
forse per capire un giorno
che io ero una ben piccola cosa,
piccola come il coro dei 30.000,
come la loro vita che dorme
laggiù nei campi,
che dorme e si sveglierà,
aprirà gli occhi
e per non vedere troppo
si lascerà riprendere dal sonno …
Hanus Hachenburg (1929 – 1943)
Come Ebrei sopravvissuti e discendenti di sopravvissuti al genocidio nazista, condanniamo inequivocabilmente il massacro di Palestinesi a Gaza e l’occupazione e la colonizzazione in atto della Palestina storica. Condanniamo inoltre gli Stati Uniti che sostengono Israele finanziandone gli attacchi, e più in generale gli stati occidentali che utilizzano i loro apparati diplomatici per proteggere Israele dalla condanna. Il genocidio inizia con il silenzio del mondo.
Siamo allarmati per l’estrema, razzista disumanizzazione dei Palestinesi nella società israeliana, che ha raggiunto livelli di massima intensità. In Israele, politici e opinionisti del Times of Israel e del Jerusalem Post hanno apertamente incitato al genocidio dei Palestinesi e la destra radicale israeliana sta adottando emblemi neonazisti.
Siamo inoltre disgustati e indignati per l’abuso della nostra storia ad opera di Elie Wiesel in pagine che promuovono palesemente delle falsità per giustificare l’ingiustificabile: il gigantesco impegno di Israele per distruggere Gaza e l’uccisione di circa duemila Palestinesi, tra cui centinaia di bambini. Niente può giustificare il bombardamento di rifugi ONU, di case, di ospedali e università. Niente può giustificare privare di elettricità e acqua le persone.
Dobbiamo far sentire forte la nostra voce collettiva e usare quanto è in nostro potere per porre fine a ogni forma di razzismo, compreso l’attuale genocidio del popolo palestinese. Chiediamo la fine immediata dell’assedio e dell’embargo contro Gaza. Chiediamo il boicottaggio totale, economico, culturale ed accademico, di Israele. “Mai più” deve significare “MAI PIU’ PER TUTTI”.
La paura
Di nuovo l’orrore ha colpito il ghetto,
un male crudele che ne scaccia ogni altro.
La morte, demone folle, brandisce una gelida falce
che decapita intorno le sue vittime.
I cuori dei padri battono oggi di paura
e le madri nascondono il viso nel grembo.
La vipera del tifo strangola i bambini
e preleva le sue decime dal branco.
Oggi il mio sangue pulsa ancora,
ma i miei compagni mi muoiono accanto.
Piuttosto di vederli morire
vorrei io stesso trovare la morte.
Ma no, mio Dio, noi vogliamo vivere!
Non vogliamo vuoti nelle nostre file.
Il mondo è nostro e noi lo vogliamo migliore.
Vogliamo fare qualcosa. E’ vietato morire!
Eva Picková, anni dodici (morta 18/12/1943)
A Olga
Ascolta,
già fischia la sirena della nave.
Su, partiamo
per porti sconosciuti!
Ecco,
è già l’ora.
Navigheremo lontano,
i sogni diventeranno realtà.
Oh, dolce nome del Marocco!
Ecco,
è già l’ora.
Il vento ci porta canzoni
di paesi lontani.
Guarda il cielo
e pensa soltanto alle violette.
Ecco,
è già l’ora.
Alena Synková (1926, sopravvisuta)
Il giardino
E’ piccolo il giardino
profumato di rose,
è stretto il sentiero
dove corre il bambino:
un bambino grazioso
come un bocciolo che si apre:
quando il bocciolo si aprirà
il bambino non ci sarà.
Franta Bass (1930 – 1944)
LEGGERE PER SAPERE
La decisione
Insicuro, pensoso, preoccupato: è un inedito Thomas Mann il protagonista del libro La decisione di Britta Böhler, – avvocato olandese che ha difeso, fra gli altri, il leader curdo Ocalan e la scrittrice somala Ayaan Hirsi Ali – che ripercorre, con un linguaggio intimo e introspettivo, i re giorni che precedettero l’uscita della lettera dell’autore, già Premio Nobel, sulla Neue Zurcher Zeitung, in cui prende chiaramente le distanze dal nazismo. Lui, che già da tre anni è in esilio volontario a Zurigo, da quando Hitler è salito al potere; lui, che dopo la confisca la bella casa di famiglia a Monaco dove sono cresciuti i suoi figli ha comunque resistito alla tentazione di schierarsi apertamente; dopo che da più parti – dalla figlia Erika, dal mondo intellettuale e dall’opinione pubblica internazionale – gli viene chiesto un “J’accuse” ufficiale, si decide e scrive la lettera. Ma nei tre giorni in cui attende che venga pubblicata lo assalgono tutti i pensieri più cupi: cosa succederà alla sua famiglia? E al suo lavoro? Perderà lettori, bandiranno i suoi libri? E poi, cosa succederà ai suoi diari, molto intimi, che ha lasciato a Monaco? Soprattutto una frase della lettera gli torna in mente, come un’ossessione: “Dall’attuale governo tedesco non può venire nulla di buono né per la Germania né per il mondo”. E ancora: “L’odio dei tedeschi o dei loro governanti per gli ebrei è il tentativo di scrollarsi di dosso legami di civiltà e minaccia di portare a un orribile e sciagurato allontanamento tra la terra di Goethe e il resto del mondo”.
Tanti i ripensamenti dello scrittore nella quotidianità di quei tre giorni descritti dall’autrice in modo dettagliato, con un linguaggio semplice, quasi di confidenza, che restituiscono il profilo di un uomo integro, pronto, nonostante i dubbi, a fare i conti con le conseguenze delle proprie azioni. (Ilaria Myr)
Britta Böhler, La decisione, traduzione di Laura Pignatti, edizioni Guanda, pagg. 200, € 15
Il museo delle penultime cose
«Questo romanzo è un’opera di fantasia. Tuttavia, per scriverlo, ho costantemente pensato a tutti gli uomini, le donne, i bambini che sono stati davvero ingoiati dalla Shoah. In Italia, gli ebrei deportati, sia italiani che stranieri, sono stati 6806; di questi, 837 sopravvissero, compresi 121 che, nati dopo il 1929, furono catturati che erano al massimo dei ragazzini. Di alcuni di loro ho voluto lasciare una traccia nel Museo delle penultime cose». A margine del suo ultimo libro uscito in occasione del Giorno della Memoria, Massimiliano Boni – romano, classe 1971, di professione consigliere alla Corte costituzionale e scrittore -, elenca alcuni nomi di deportati in rappresentanza di tutti i sei milioni di vittime. Nel suo romanzo l’autore immagina che al Museo della Shoah a Roma sta per aprire una grande mostra sugli ultimi sopravvissuti ai campi di concentramento, ormai tutti scomparsi in un’Italia del futuro, scossa da rigurgiti antisemiti. In questo clima ostile, Pacifico Lattes, giovane studioso e vicedirettore del museo, dopo anni di archiviazione, raccolta di testimonianze e conservazione, crede finalmente di aver terminato il suo lavoro e di potersi lasciare alle spalle la Shoah e i suoi orrori. Finché un giorno arriva un’inaspettata notizia: un superstite sarebbe ancora vivo, abita in un ospizio della periferia romana e il suo nome non compare in nessuna lista. Inoltre, sembra non aver intenzione di parlare. Tra il detto e il non detto, alla fine i due si confronteranno in un dialogo muto e insieme vibrante, riconoscendosi nella dolorosa esperienza dell’altro. «Ora non era più un essere del passato, come prima, nel buio delle sale, ma un grande cetaceo che viveva nel tempo presente solo se aveva gli occhi aperti; e quando si reimmergeva andava altrove, ultimo sopravvissuto di un’epoca lontana». Marina Gersony
Massimiliano Boni, Il museo delle penultime cose, edizione 66th and 2nd, pagg. 376, disponibile in versione Ebook, € 18,00
Biografia di una vita in più
«Tesoro, non puoi venire con me, devi guardare e aiutare tua sorella, tu sei più sveglia, lo sai che lei è timida e vergognosa. Non ti preoccupare, ci rivedremo tutti al campo». Fu l’ultima volta che vidi mia madre, questo è l’ultimo ricordo che ho di lei.
Fatina Sed nacque a Roma l’8 marzo 1931. Nel 1944, tredicenne, fu arrestata a Roma e deportata nel campo di sterminio di Auschwitz. Sopravvissuta alla Shoah, morì a Roma nel 1996. Fatina riuscì a raccontare il dolore subito e il trauma personale di quella drammatica esperienza in un quaderno che la nipote Fabiana ha trovato per caso oltre cinquant’anni dopo. Sono pagine preziose in cui emergono i fatti e le emozioni cristallizzate nella memoria di una bambina, alle quali si aggiungono le parti mancanti della sua vita nella ricostruzione minuziosa della nipote: la sofferenza sua, delle zie e della madre. Un dolore che si è tramandato nelle generazioni successive e che emerge in tutta la sua forza e intensità grazie anche al lavoro delle due curatrici del libro, Anna Segre e Fabiana Di Segni, entrambe psicoterapeute. Marina Gersony
Fatina Sed. Biografia di una vita in più, A cura di Anna Segre e Fabiana Di Segni
Editore: Elliot, Collana: Antidoti, Pagine: 91, Prezzo: € 13,50
Il viaggio
Non sono molti i libri illustrati per bambini che riescono a raccontare storie umane drammatiche senza cadere nella retorica. L’opera prima di Francesca Sanna, autrice e illustratrice, ci riesce grazie alla capacità di cogliere, interpretare e sintetizzare con delicatezza e sensibilità un racconto che le è stato affidato. Il libro segue le vicende di una famiglia costretta ad abbandonare tutto quello che possiede, compresa la propria casa, per scappare dagli orrori della guerra. Ma in fondo c’è sempre la speranza. Davvero splendide le illustrazioni e indovinati i personaggi accompagnati da un testo immediato e incisivo. Marina Gersony
Francesca Sanna, Il viaggio. Autrice e illustratrice: Francesca Sanna
Traduzione: Martina Sala, Emme Edizioni, Collana: Album, Pagine: 48, Prezzo: € 15,00, Età di lettura: dai 4-6 anni.
Il Sacrificio del fuoco
«Caro Signore, se non fosse stato per quella faccenda della carrozzina….», tutto sarebbe stato diverso. Come tacere, come dimenticare? Così rievoca la Signora Walker, proprietaria della “macelleria degli ebrei”, l’unica in città abilitata a vendere carne kasher a una popolazione ebraica piegata dalle angherie e che non sa ancora che presto sarà deportata. Un toccante racconto, dalla voce della stessa donna che, non ebrea, decide di vendere loro una maggior quantità di carne casher, più di quanto le miserrime razioni delle tessere annonarie concedano; e che vedendo passare davanti a sé, tutti i venerdì sera, quella umanità dolente (perché solo a quell’ora i tedeschi permettono agli ebrei di comprare la carne, estrema crudeltà consumata alle prime luci dello Shabbat), vede crescere dentro di sé un lancinante desiderio di espiazione verso il Male compiuto da altri. È la bontà dell’uomo che non muore mai quella che vibra nelle azioni della signora Walker, è la presenza del Divino che abita le stanze del cuore, come scrive il Premio Nobel Nelly Sachs nella prefazione al piccolo libro di Goes, quello che leggiamo in queste pagine.
Fiona Diwan
Albrecht Goes, Il sacrificio del fuoco, trad. Giada d’Elia, Giuntina, pp. 50, euro 10,00
Memoria ferita aperta – Mameloshn
Mameloshn è la lingua materna, l’idioma degli affetti e della tradizione, il termine yiddish che indica qualcosa di più di una lingua, quanto piuttosto l’appartenenza a un mondo. Mameloshn: una calligrafia della preghiera, idioma santificato dal dolore, specie se sei vissuto dopo la Seconda guerra mondiale e hai una nonna e un padre sopravvissuti al lager, e una famiglia che, se ha avuto la fortuna di sopravvivere, abita ai quattro angoli della Terra. Ambientato tra Rio de Janeiro, Israele, Parigi, la Siberia e la Polonia, questo lungo racconto ha il respiro spezzato di un flusso inconscio, abitato da folgoranti flash visivi, una narrativa di formazione che ripercorrendo la storia familiare porta la giovane protagonista a ritrovare un Sé sconnesso per ricongiungersi con «il cuore insensato di chi si crede salva in un territorio protetto». Ben scritto, intenso e a tratti scabroso, una galleria di ritratti familiari tratteggiati con immediate pennellate psicologiche (la scrittrice è anche psicanalista), questo romanzo breve tratta in fondo “dell’irreparabile di destini già consumati, dove la vita, però, continua e si preserva, in speranze…”.
Fiona Diwan
Halina Grynberg, Memoria ferita aperta – Mameloshn, trad. Vincenzo Barca, pp. 71, euro 10,00
Anne Frank – Diario (nuova edizione)
«Per l’intero 2015 ho lavorato a un progetto difficile, che mi ha riempito di preoccupazioni e di attese: ho curato la nuova edizione italiana del Diario di Anne Frank per Rizzoli. Fare il curatore è un po’ come fare il regista: stai vicino a chi tradurrà l’olandese, sistemi la struttura dei testi, decidi cosa va e cosa non va, scegli la foto della copertina. Tutti i giorni, e tutte le notti, per tutto il 2015, è stato un lavorìo incessante e pieno di scoperte, enigmi, telefonate, dubbi, parole che ti accompagnano per ore e giorni e finalmente, quando meno te lo aspetti, si rivelano in tutta la loro bellezza». Così scrive l’ebraista e scrittore Matteo Corradini sul suo sito presentando questa nuova edizione di un documento dal valore storico incommensurabile. Con il prezioso aiuto di Dafna Fiano che ha tradotto i testi, sono state recuperate le parole più vere di Anne Frank nel rispetto della stesura originaria, liberata da interventi e tagli operati dopo la scomparsa della giovane autrice. La storia di Annelies Marie Frank, detta Anne (italianizzata in Anna) è universalmente nota. Il suo Diario è stato tradotto in oltre 60 lingue e venduto in più di 30 milioni di copie, tanto che nel 2009 l’UNESCO lo ha inserito nell’Elenco delle Memorie del mondo, un programma volto a censire e salvaguardare il patrimonio documentario dell’umanità dai rischi connessi all’amnesia collettiva. Dopo essere stata deportata nel settembre 1944 ad Auschwitz, Anne morirà di tifo a Bergen-Belsen nel 1945. Alcuni amici di famiglia riuscirono a salvare i suoi appunti scritti all’interno dell’alloggio segreto e li consegnarono al padre, Otto Frank, che ne curò la pubblicazione nel 1947 col titolo originale Het Achterhuis (“Il retrocasa”). La nuova edizione curata da Matteo Corradini, frutto di una scrupolosa ricerca filologica, lessicale e letteraria, acquisisce dunque autorevolezza, forza e una ritrovata freschezza grazie ai numerosi approfondimenti finora inediti e alla leggerezza dell’editing che armonizza le due stesure originarie (una più intima e diretta, scritta di getto sul diario, e una più riflessiva e letteraria, che Anne aveva ricopiato con l’intenzione di comporre un libro “per i posteri”). Preziosa e toccante è infine la testimonianza di Sami Modiano che nella prefazione ripercorre la dolorosa esperienza del campo. Scrive Vaclav Havel: «L’eredità di Anne Frank è viva e ci sostiene, oggi che la mappa del mondo sta cambiando e si risvegliano oscure passioni».
Marina Gersony
Anne Frank, Diario, Curatore Matteo Corradini, prefazione di Sami Modiano, traduzione dall’olandese di Dafna Fiano, BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, 2017, pp. 544, euro 10,00
Un chilo di cioccolato
diario di una ragazza ebrea ad Auschwitz
Girava voce che le condizioni di vita a Theresienstadt fossero migliori rispetto agli altri ghetti, forse per quel motivo era destinato agli ebrei benestanti. Di fatto il campo di concentramento ceco (per alcuni studiosi denominato “ghetto di Terezín”) presentato dalla propaganda nazista come esemplare insediamento ebraico dove venivano ospitati il fior fiore degli intellettuali ebrei mitteleuropei, non fu altro che un sinistro luogo di raccolta di prigionieri da indirizzare soprattutto ai campi di sterminio di Treblinka ed Auschwitz. (Circa 144.000 ebrei ed ebree furono imprigionati/e qui, ne morirono 33.000, la maggior parte a causa delle inumane condizioni. Fonte: Wikipedia). Nel libro Un chilo di cioccolato, l’autrice Chava Kohavi Pines (nata Eva Hirsch a Vienna nel 1927), racconta la sua storia di ragazza ebrea di buona famiglia che dalla sera alla mattina vede capovolgersi il suo mondo: discriminazioni, intolleranza, sospetti fino alla deportazione prima nel ghetto “modello” di Theresienstadt, poi ad Auschwitz. Durante la prigionia, Eva sperimenta una tragedia più grande di lei, ma allo stesso tempo vive le emozioni e le scoperte tipiche delle ragazzine della sua età: le amicizie, l’amore per la musica, la voglia di divertirsi. I ragazzi vengono sistemati in una stanza del blocco L214 e le ragazze nella sezione L414, tutti uniti dal desiderio di vivere una vita il più normale possibile e apprezzare anche quel poco di buono che arriva. Come il giorno in cui per caso Eva riesce a impadronirsi di un chilo di cioccolato tutto per sé… Pur immersa in una quotidianità feroce, grigia e inospitale, la ragazza sperimenta un’inaspettata gioia. Piccole cose che danno senso alla vita e soprattutto la voglia di andare avanti.
Marina Gersony
Chava Kohavi Pines, Un chilo di cioccolato, diario di una ragazza ebrea ad Auschwitz, traduzione dall’inglese di Francesca Cosi e Alessandra Repossi, Edizioni Terra Santa, pp. 104, euro 14.00
Il diario di Èva Heyman
Ha vissuto appena tredici anni Éva Heyman, «la ragazzina con quel meraviglioso visino da mela, con la sua avida curiosità, l’ambizione, la vanità, gli occhi luminosi che sprizzavano energia», come la definiva il suo patrigno, lo scrittore ungherese Béla Zsolt (1895-1949), nel suo mirabile libro autobiografico Le nove valigie. Éva Heyman nasce il 13 febbraio 1931 a Nagyvárad, l’attuale Oradea in Romania, e termina la sua breve esistenza il 17 ottobre 1944 nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, secondo testimoni oculari selezionata direttamente da Mengele per il forno crematorio. Dal suo tredicesimo compleanno, il 13 febbraio 1944, e fino al 30 maggio, data dell’ultima annotazione, tiene un diario in cui descrive le condizioni di vita sempre più difficili degli ebrei di Nagyvárad. In meno di tre mesi la vita piuttosto agiata e, malgrado la guerra, ancora serena di questa ragazza sensibile e intelligente subisce trasformazioni radicali: prima l’internamento nel ghetto e poi la deportazione ad Auschwitz il 13 giugno. Dalle lettere riportate in questo libro risulta che prima di essere spedita al campo di concentramento Éva Heyman affida il diario a una fedele domestica cattolica della famiglia, la quale al termine della guerra lo restituisce alla madre, la giornalista Ágnes Zsolt, unica sopravvissuta di tutta la famiglia, insieme al secondo marito Béla Zsolt, scampati miracolosamente alla morte. Ágnes Zsolt è morta suicida nel 1951. (dalla Postfazione di Andrea Rényi)
Èva Heyman, Io voglio vivere. Il diario di Èva Heyman a cura di Àgnes Zsolt, postfazione e traduzione di Andrea Rényi, Giuntina, 2017, pp. 156 , euro 15,00, ebook euro 6,99
La prova
Otto mesi durò il viaggio di Primo Levi da Monowitz – Auschwitz a Torino. Otto mesi da quando, stremato, malato, uscì dal lager appena liberato dall’Armata Rossa- siamo nel gennaio 1945. Il suo “ritorno” alla vita e alla patria, attraverso Polonia, Ucraina, Bielorussia, Germania e Austria è stato raccontato da Levi ne La tregua e quel peregrinare è stato la mappa sulla quale si sono mossi, sessant’anni dopo – tra il 2004 e il 2005 – il giornalista Marco Belpoliti e il regista Davide Ferrario per elaborare sul campo un progetto, diventato il film La strada di Levi. Ma Belpoliti ha tenuto, di quel tempo e di quei luoghi, anche un taccuino di viaggio, La prova, fatto di parole, fotografie e disegni che, dopo dieci anni, esce oggi in una nuova edizione. «Una volta rilette le pagine – scrive Belpoliti – mi sono accorto che la figura di Primo Levi prendeva sempre più corpo, diventava sempre più reale; da un certo momento in poi, ho compreso che era diventato il mio compagno di viaggio».
Ester Moscati
Marco Belpoliti, La prova, Un viaggio nell’Est Europa sulle tracce di Primo Levi, Piccola Biblioteca Guanda, pp. 214, euro 14,00
Il mistero della buccia di arancia
Anna vive a Firenze, fa la quinta elementare, è abbastanza brava a scuola, ma detesta la storia. Un giorno la maestra le assegna una ricerca di storia, con la raccomandazione di non basarsi soltanto su Internet, bensì di cercare altre fonti come i libri, vecchi giornali, filmati e testimonianze. Anna non sa che pesci pigliare ma presto le circostanze le riveleranno che il tema per la sua ricerca è racchiuso nella storia della sua famiglia o meglio, in un mistero da scoprire: perché alla nonna Miriam non piacciono le buccette d’arancia caramellate che prepara il nonno? La ragazza indaga e presto scopre la verità: dalla fuga rocambolesca in Svizzera della nonna – allora una bambina – per sottrarsi alla Shoah insieme ai parenti fino ai giorni trascorsi nei centri profughi. Racconta nonna Miriam: «Quando eravamo in Svizzera non c’era molto da mangiare e non c’era mai la frutta. Una volta però arrivò un camion di arance e ne venne consegnata una a ogni bambino (…). La mangiai piano piano per farla durare più a lungo (…). Poi l’arancia finì, io aprii gli occhi e vidi di nuovo le lunghe tavolate del campo, le ciotole sui tavoli e quell’odore di gente che stava troppo appiccicata. Mi prese una tal tristezza che li richiusi subito e iniziai a mangiare anche la buccia (…). Il bianco era molto amaro, sembrava polistirolo, però ho continuato a mangiare finché non ho finito tutto. Ma è stato terribile! Alla fine non ce la feci più e corsi in bagno a vomitare. Da allora non ho più mangiato un’arancia, nemmeno le buccette del nonno».
Rivolto ai ragazzi dell’ultimo ciclo della scuola elementare e dei primi anni della scuola media, Il mistero della buccia d’arancia è un libro rigoroso nella ricostruzione storica e scritto con un linguaggio delicato e insieme pregnante; un libro di umanità, di sentimenti, di vita e di memoria civile. Età di lettura: da 9 anni.
Marina Gersony
Lia Tagliacozzo, Il mistero della buccia di arancia, Einaudi Ragazzi, 2017, pp. 144, euro 11,00
Il partigiano Edmond
Mi chiamo Edmond e ho diciassette anni. Dalla primavera avanziamo su queste colline: quasi tutte spoglie, poche miseramente boscose. Questa desolazione è la nostra disgrazia, ma noi abbiamo imparato a camuffarci, a nasconderci, a strisciare per terra, a sfruttare i terreni morti per sorprendere il nemico. Sapendo di avere a che fare con persone ferite e determinate, il nemico ci manda contro i suoi soldati più agguerriti, che reclutano spie fra i gendarmi e i contadini. Ma noi non ci arrenderemo facilmente. Inizia il nuovo romanzo Il partigiano Edmond di Aharon Appelfeld, lo scrittore nato nel 1932 in Bucovina del Nord, allora in Romania, e sopravvissuto all’Olocausto in cui perse la madre e i nonni. Nel corso della Seconda guerra mondiale, il giovanissimo Edmond riesce a sfuggire per un soffio ai campi di sterminio e a raggiungere alcuni partigiani ebrei, capeggiati dal carismatico Kamil. Insieme cercano di resistere all’esercito tedesco nascondendosi nella foresta ucraina. La vita insieme ai compagni, gli addestramenti quotidiani, la lotta per la sopravvivenza in una regione paludosa e ostile ma ideale per la guerriglia contro gli occupanti tedeschi, temprano il giovane Edmond trasformandolo via via in un uomo pronto a fronteggiare il pericolo e la morte ma soprattutto, lo aiutano a crescere interiormente. Edmond farà i conti con le sue radici, la sua appartenenza, le sue emozioni profonde, i ricordi, la fede degli avi, il distacco dai suoi genitori ma soprattutto con se stesso. Lo scopo non è solo quello di sopravvivere, ma è anche di salvare il proprio popolo e raggiungere “la vetta”, il luogo geografico e spirituale della realizzazione. Romanzo di grande spessore dell’ultimo grande testimone della Shoah, Il partigiano Edmond è anche un racconto di riscatto personale, determinazione, obbiettivo da raggiungere e di volontà di proteggere, aiutare e salvare i più deboli.
Marina Gersony
Aharon Appelfeld, Il partigiano Edmond, traduzione di Elena Loewenthal, Narratori Della Fenice – Guanda, pp. 336, euro 19,00
Ho deciso di non piangere
Dio ordina agli uomini di pregare, e le loro preghiere non cambiano le cose. La questione centrale della poetica di Wiesel torna in questo romanzo in cui i dialoghi hanno uno spazio potente e veicolano introspezione e confronto. Gregor, ragazzo abbandonato in un rifugio precario dopo la liquidazione di un ghetto, dona all’Altro, al giovane misterioso che incontra nella foresta, il suo nome ebraico Gavriel, facendo così del Senza nome – poeta, pazzo, filosofo, profeta? – il suo alter ego.
Attraverso quattro stagioni, come le quattro fasi della vita, Gregor si muove alla ricerca di una speranza, di una possibile sopravvivenza, dell’amore e della comprensione, sotto un cielo estraneo e lontano, attraversato da nubi che non sono nuvole ma ebrei tornati in altra forma a cercare le proprie case saccheggiate, ad osservare i nuovi padroni delle loro cose. «Abbiamo tutti i nostri fantasmi, Vanno e vengono a loro piacimento, sfondano tutte le porte che poi non richiudono mai del tutto. E portano nomi diversi». Gregor recita il Kaddish, per suo padre, ma anche per il Padre, che anche Dio ha bisogno di preghiere.
Ester Moscati
Elie Wiesel, Le porte della foresta, traduzione di Laura Frausin Guarino, Giuntina, 2017, pp. 256, euro 16,50, ebook euro 8,99
La meravigliosa bugia
Con un ricco apparato di biografie e documenti, il libro racconta le storie di quanti cercarono rifugio sul Monte Titano; ebrei stranieri che l’Italia perseguitò già a partire dal 1936, ebrei italiani prima e dopo il 1943. Ebrei che già frequentavano la Repubblica di San Marino e quelli che la scoprirono nell’angoscia della fuga da Austria, Germania o Est Europa. Terra di rifugio, nonostante l’iniziale impreparazione della Gendarmeria della Repubblica, che non aveva precise indicazioni su come gestire “la questione ebraica”. Ma nel momento cruciale, quando le SS chiesero la consegna degli ebrei rifugiati, il Governo sammarinese rispose “non ci sono ebrei sul Titano”, quella “meravigliosa bugia” che dà il titolo al libro, una bugia capace di durare abbastanza a lungo da salvare chi voleva proteggere, senza essere scoperta, frutto di tante complicità, all’origine di tante piccole bugie che generano una tacita intesa.
Ester Moscati
Davide Bagnaresi, Giuseppe Marzi, Antonio Morri, La meravigliosa bugia, Giuntina, 2017, pp. 386, euro 20,00
I luoghi della memoria ebraica di Milano
Molti luoghi di Milano raccontano la storia della persecuzione antiebraica in Italia, che ha avuto origine e si è sviluppata diversi anni prima che il nostro paese venisse invaso dalle armate tedesche. Alcuni di questi luoghi furono teatro di una vera e propria resistenza contro la violenza discriminatoria delle leggi del 1938, definite dal governo fascista di Mussolini leggi “per la difesa della razza”, che violavano la dignità di uomini, donne e bambini, privandoli dei diritti più elementari. Nella scuola ebraica, nella mensa dei bambini, nell’ambulatorio medico, dietro a dei portoni, dove oggi non c’è nemmeno una targa per ricordare, si sono vissuti atti di coraggio ed eroismo, meno eclatanti di altri, ma di straordinaria umanità. E quando, dopo l’8 settembre del 1943, ebbe inizio anche in Italia lo sterminio nazista e il ministro degli interni della Repubblica Sociale Italiana emanò l’ordine di arresto per tutti gli ebrei residenti nel nostro paese, il carcere di San Vittore e i sotterranei della Stazione Centrale di Milano furono tra i luoghi dove si manifestò con maggiore intensità la tragedia della Shoah italiana. In quei sotterranei è stato creato il Memoriale della Shoah di Milano.
Francesca Costantini, I luoghi della memoria ebraica di Milano, Mimesis edizioni, pp. 120, euro 12,00
Janus, il maestro che volle salvare i bambini dal ventre della balena
Un eroe, una figura circondata da un alone leggendario, un precursore in fatto di educazione, un uomo fuori dal comune: medico, scrittore, giornalista, ma soprattutto pedagogista impegnato nell’azione sociale: tutto questo fu Janus Korczak, un mito, fuori e dentro il suo paese, la Polonia, ma meno noto da noi in Italia. Il bel libro di Laura Giuliani uscito per Il Margine editore (Korczak: l’umanesimo a misura di bambino, 256 pp, 16 euro), nasce proprio per colmare questa lacuna. Con una prosa fluida e di piacevolissima lettura, l’autrice presenta, non solo a genitori, educatori e insegnanti, ma anche a chi volesse approfondirne la conoscenza, la vita e l’opera di uno fra i personaggi più straordinari del Novecento, la cui esistenza fu segnata dagli eventi storici più tragici dell’epoca.
Janus Korczak, pseudonimo di Henryk Goldszmit, nasce a Varsavia nel 1878, da una famiglia ebraica colta, benestante e pressoché assimilata. Il padre è un famoso avvocato, integrato nella cultura polacca anche grazie alla sua intensa attività pubblicistica, con la quale cerca di avvicinare la sua comunità religiosa, essenzialmente ortodossa, alla società del paese in cui è inserita. Ragazzo precoce e sensibile, Henryk già a 14 anni ha una prima crisi religiosa, da cui deriva la profonda convinzione etica che ispirerà tutta la sua vita: “Non esisto solo perché gli altri mi amino e mi ammirino, ma perché sia io ad agire e ad amare”. A ciò si accompagna l’inizio della riscoperta della tradizione religiosa ebraica, che si compirà col sopraggiungere della maturità; ciononostante, egli rimase un ebreo “a modo suo”, lontano dalla pratica dell’ortodossia. Il giovane Henryk, ci dice Laura Giuliani, manifesta frustrazione e insofferenza per le rigidità del sistema scolastico, improntato a una disciplina ferrea secondo il sistema russo, fin dalle elementari: “Era un ambiente freddo, soffocante e ostile”. Comincia così a maturare le prime idee di riforme educative, e gli anni universitari (frequenta la Facoltà di Medicina dell’Università di Varsavia) saranno caratterizzati da un intenso impegno sociale e da una febbrile attività giornalistica e creativa, per le collaborazioni con riviste letterarie e politiche che riveleranno un indiscusso talento letterario: nel 1901 esce il suo racconto I bambini di strada, in cui dimostra una notevole conoscenza della realtà e psicologia dei bambini, spesso orfani, di Varsavia. Seguirà nel 1905 la pubblicazione del romanzo Il bambino da salotto, in cui, a partire da elementi autobiografici, racconta la famiglia borghese, formale, ipocritamente perbenista e iperprotettiva nei confronti dei figli. Divenuto autore di fama, non trascura attività sociali, quali l’impegno nelle biblioteche gratuite per bambini e giovani operai, nelle colonie estive e nell’organizzazione di giochi per i bambini di strada, che raduna, di shabbat, nella sua abitazione. L’interesse per l’infanzia è dunque evidente fin dalla prima giovinezza, tanto che, dopo la laurea, lavorerà come medico nell’ospedale per bambini Benson e Bauman di Varsavia, dove rimarrà, fatta eccezione per alcuni periodi di studio a Berlino, Parigi e Londra, fino al 1911. Poi si trasferisce nella Casa degli orfani del quartiere Wola, dove si gioverà della collaborazione, su base volontaria, di Stefania Wilczynska. La loro opera sarà interrotta dalla Grande Guerra prima, e poi dall’occupazione nazista della Polonia e dall’istituzione, a Varsavia, del ghetto. Tuttavia Korczak continua a scrivere articoli, opere letterarie, saggi di argomento pedagogico: a partire dal 1918 pubblica la tetralogia Come amare il bambino, cui seguiranno Il diritto del bambino al rispetto (1929) e Regole di vita, e Pedagogia per i giovani e gli adulti (1930). In queste opere prende forma compiutamente il rivoluzionario pensiero educativo di Janus Korczak, quello da lui maturato con l’esperienza sul campo, assecondando una vera e propria vocazione. La centralità del bambino e il ricorso al metodo scientifico lo avvicinano agli altri pedagogisti a lui contemporanei del movimento per l’educazione nuova, in primo luogo a Maria Montessori.
Particolarmente innovativo è anche il fondamento giuridico (ampiamente trattato da Laura Giuliani, l’autrice) che l’educatore polacco dà alla sua opera, a partire dal quale si sviluppa la durissima critica che Korczak porta alle istituzioni sociali, partendo da quelle educative, ferme alla concezione per cui il bambino è un adulto incompiuto. Pertanto, in Come amare il bambino egli individua i diritti fondamentali dell’infanzia, le cui implicazioni svilupperà nel saggio Il diritto del bambino al rispetto. I figli non sono proprietà dei genitori, né sono degli adulti in miniatura, o semplicemente destinatari passivi di ciò che la società predispone per loro: sono persone che hanno la piena dignità di esseri umani, soggetti di diritti inalienabili, che devono essere rispettati. Il rispetto è il concetto cardine del pensiero di Korczak, la base necessaria per le relazioni fra le parti; infatti, i bambini appartengono innanzitutto a se stessi, e hanno perciò diritto a che la loro vita sia rispettata, a partire dai genitori: “Per timore che la morte possa strapparci il bambino, spesso strappiamo il bambino alla vita; per impedire che muoia non lo lasciamo vivere”. Una volta assicurata una vigilanza responsabile, il bambino ha diritto alla fiducia, ovvero al rispetto della sua libertà e volontà di autodeterminarsi, nonché della capacità di fare delle scelte, anche nel campo delle amicizie e dell’amore. “È un ammonimento alle madri ansiose e ai genitori iperprotettivi”, commenta l’autrice.
Inoltre, il bambino ha diritto alla sua vita presente, a vivere pienamente la sua età, infanzia, fanciullezza e adolescenza. Questo implica, per ogni età, il rispetto dei sentimenti, dei segreti e delle proprietà personali, così come dell’ignoranza dovuta all’inesperienza, e degli sbagli. “Voler accelerare e superare in fretta l’età dell’infanzia – scrive Laura Giuliani – è un vero furto, perché priva il bambino di qualcosa che gli appartiene e che gli spetta, appunto, di diritto”. Infine, il bambino ha diritto a essere accettato, amato e apprezzato per quello che è, non per come gli adulti lo vorrebbero. A questi punti si aggiungono, naturalmente, i diritti basilari come quello a essere nutriti, educati e istruiti: cibo, sicurezza, amore e considerazione sono i bisogni fondamentali di ogni essere umano, bambino o adulto che sia. Compito dell’educatore è impegnarsi per sostenere, orientare, se necessario correggere, il bambino fornendogli quella sicurezza che è condizione indispensabile per lo sviluppo fisico, affettivo e intellettuale. Una buona educazione evita sia l’imposizione autoritaria di soli doveri, sia aspettative troppo elevate sui risultati… Il discernimento fra il potenziale e l’impossibile è il compito essenziale dell’educatore. Korczak non tralascia neppure la dimensione spirituale e religiosa, per lui l’infanzia è un’età altamente spirituale, dimensione che si riscontra nelle domande che il bambino si pone sull’origine della vita e sulla morte, sulla paura e sul destino. Ed è nell’approccio mirato allo studio della Torà e dell’infanzia di alcune figure bibliche, come Mosè, Davide, Salomone, che Korczak identifica una via di formazione privilegiata.
Questi sono i tratti essenziali dell’umanesimo a misura di bambino per il quale Janus Korczak ha vissuto, lottato e sacrificato la vita. Il 6 agosto 1942 avviene il trasferimento nel centro di sterminio di Treblinka, a cento chilometri da Varsavia. “Attraverso le vie cittadine avanza, in silenzio e disciplinatamente, il corteo dei bambini; in testa c’è Janus Korczak. Prima di salire sul treno, il comandante nazista che dirige le operazioni, riconosciutolo, gli offre la libertà, ma lui rifiuta, rimettendosi in fila coi bambini”.
Giovanna Rosadini Salom
Laura Giuliani, Korczak: l’umanesimo a misura di bambino, Il Margine
Oltre la disperazione
Una riflessione solenne e vertiginosa su scrittura e Shoah e su che cosa voglia dire per uno scrittore la fedeltà alla memoria imperfetta dei ricordi. Tre magnifiche lezioni tenute alla Columbia University e capaci di accendere squarci di luce di un’intensità che solo Appelfeld poteva generare. Appelfeld crede che solo l’arte abbia il potere di riscattare la sofferenza dall’abisso e ce lo dimostra anche con questi brevi saggi scritti con una penna intinta nell’inchiostro azzurro delle emozioni. Assimilazione, odio di sé, cupio dissolvi ebraica. Dio, destino, castigo, ricompensa, e il gridare umano che vorrebbe mandare in frantumi il firmamento. È il rapporto tra l’arte e l’orrore, mentre lo scrittore succhia il nero latte della Shoah e ci porta al cuore della sua esperienza facendoci riflettere e commuovere, regalandoci parole di pura bellezza e riflessività. Tra gli israeliani di oggi, Appelfeld è forse il più maestoso e questo prezioso libro lo riconferma. Pregevole anche la conversazione finale con lo scrittore Philip Roth. Fiona Diwan
Ahron Appelfeld, Oltre la disperazione, Guanda, pp. 136, euro 14,00
Italiani: non solo brava gente
Si dovette attendere il processo Eichmann del 1961 perché si potesse dimostrare che per essere un carnefice degli ebrei non era necessario per forza macchiarsi del loro sangue, ma bastava fare parte della macchina burocratica dello sterminio. Aspetto della Shoah che in Italia a lungo è rimasto in un cono d’ombra e che Simon Levis Sullam documenta scrupolosamente nel suo libro I carnefici italiani. Scene dal genocidio degli ebrei , 1943-1945 (Feltrinelli).
«Anche se l’uccisione degli ebrei non è avvenuta sul suolo italiano, ho sostenuto che la Shoah poteva avvenire solo grazie alle molteplici funzioni di tipo burocratico, amministrativo e poliziesco che in Italia sono state svolte dagli italiani», ha spiegato al Festival del libro ebraico di Ferrara lo stesso Levis Sullam, che insegna Storia contemporanea all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Allo studioso interessa vedere come la quotidianità di una città italiana, ad esempio Venezia, con i suoi cinema, teatri e partite di calcio, andava quasi su un binario parallelo, mentre si susseguivano gli arresti sistematici degli ebrei.
«La centralità della figura dei Giusti – e talvolta parliamo di casi non precisamente documentati – ha offuscato il ruolo degli ingiusti», nota l’autore. Levis Sullam si dedica a studiare i presupposti ideologici degli atti persecutori, parlando non solo del principale ideologo dell’antisemitismo italiano, Giovanni Preziosi, ma anche di figure minori, come un tale Martelloni, un funzionario della questura di Firenze che svolgeva il ruolo di cacciatore di ebrei porta a porta e scriveva di sua penna pamphlet antiebraici.
Si pone poi il problema della consapevolezza di tutti coloro le cui azioni hanno prodotto una moltiplicazione di funzioni burocratiche (secondo l’analisi del sociologo Zygmunt Bauman), che hanno permesso la Shoah. «A mio avviso, forse queste persone non sapevano quale sarebbe stata la conseguenza finale delle deportazioni di ebrei, ma sapevano invece che svolgevano un’azione persecutoria», sostiene Levis Sullam. Nel dopoguerra lo Stato, per mantenere la sua continuità, non viene giudicato per il suo coinvolgimento nelle deportazioni. Per Levis Sullam, si può parlare di «un’operazione di vuoto conoscitivo». Questo, come spiega lo storico, ci pone davanti a paradossi come quello di Venezia dove il responsabile dei sequestri di beni ebraici, sarà il responsabile, nel dopoguerra, della restituzione dei suddetti beni.
Anna Lesnevskaya
Simon Levis Sullam, I carnefici italiani. Scene dal genocidio degli ebrei , 1943-1945, Feltrinelli, pp. 147, euro 12,75
La doppia vita di Miriam, che visse tra due mondi
Credevamo si sapere tutto sull’Olocausto, credevamo che le testimonianze, i saggi, i romanzi, le poesie, i racconti e perfino i fumetti avessero sviscerato e analizzato in ogni dettaglio il genocidio perpetrato dalla Germania nazista nei confronti degli ebrei d’Europa e di tutte le categorie ritenute “indesiderabili”. Eppure il dolore e la tragedia non si esauriscono nella pur vasta ed esaustiva letteratura concentrazionaria che continua a rivelare fatti e situazioni inimmaginabili. Come il recente romanzo Io non mi chiamo Miriam della scrittrice e drammaturga svedese Majgull Axelsson, che oltre a sorprendere per la rara sensibilità e la notevole empatia con cui affronta uno dei capitoli più dolenti della storia d’Europa, ci fa sprofondare nella tragica realtà vissuta da un’altra etnia di Untermenschen, i rom, i sub-umani di cui le vicende drammatiche sono state probabilmente meno indagate e che si intrecciano inesorabilmente con quelle del popolo ebraico.
Come la storia di Malika, una ragazzina rom nata in un insediamento zingaro in Baviera, prelevata dai nazisti insieme al fratellino e a una giovane cugina. Dopo varie vicissitudini la giovane finisce in un gruppo di ebree durante il viaggio da Auschwitz a Ravensbrück e con sgomento scopre che ci sono ebrei che disprezzano i rom, anche se al tempo stesso immagina, sbagliandosi, di avere come ebrea più possibilità di sopravvivenza. Quando si troverà di fronte al cadavere di una donna ebrea, non ci pensa due volte a sfilarle il vestito e indossarlo di nascosto per assumerne l’identità. È una scelta istintiva, tutta sua, dettata dal terrore. Da quel momento sarà Miriam Goldberg.
La storia di Miriam, pur essendo immaginata e costruita dall’autrice sulla base di una puntuale documentazione, si rivela più che versosimile grazie alle emozioni che riescono a scuotere e toccare il lettore nel profondo. Autentici nel romanzo sono alcuni personaggi sinistri come Mengele, il famigerato dottore che uccide dopo indicibili torture il fratellino rom di Miriam con le sue perverse sperimentazioni “in nome della scienza”; come autentica è la turpe e ripugnante vigilatrice dei campi, la sadica Kapò Irma che nulla più possiede di umano.
Le pagine scorrono, con i pensieri di Miriam che si susseguono in un rigore interiore necessario per non perdere l’equilibrio mentale. I pensieri vanno domati, dosati e cacciati per non sprofondare in un inferno emotivo. I lager sono anche occasioni di sporadiche scintille di straordinaria umanità, come i legami che si stabiliscono via via con le amiche ebree, una in particolare, unite da un comune destino; amicizie fondamentali per non trasformarsi in Muselmänner, i prigionieri-zombi dall’unico desiderio di essere cancellati per sempre dalla faccia della terra.
Miriam non rivelerà mai a nessuno la sua vera identità di rom, neppure quando sopravvive alle nefandezze di Auschwitz e di Ravensbrück. Una volta libera, sola, abbandonata a se stessa e con un futuro tutto da inventare in un luogo a lei estraneo, decide di mentire, di mantenere la sua rubata identità ebraica anche dopo l’accoglienza calorosa nella Svezia del dopoguerra, dove tuttavia i rom, o tattare, sono ancora ferocemente perseguitati e considerati feccia della società. La sua nuova vita sarà all’insegna di una finta armonia: nei giorni, mesi e anni che verranno dovrà rimuovere, soppesare, fingere e soprattutto stare all’erta, senza mai potersi fidare di nessuno e cercando di convivere con un passato da cancellare. Dopo essersi creata una famiglia tutta sua e uno status sociale rispettabile, verrà il momento in cui il peso della menzogna diventa insostenibile: Miriam si sente una traditrice, ha tradito il suo popolo e la sua lingua, una vergogna intima che la opprime. Di fronte al bracciale con il nome inciso che le regala la famiglia ignara in occasione del suo ottantacinquesimo compleanno, le sfuggirà la verità tenuta nascosta per settant’anni: «Io non mi chiamo Miriam», sussurra questa elegante signora anziana svedese che decide di rivelare alla giovane nipote la sua vera identità. Del resto, come confida Miriam alla ragazza, «non si può dire tutto! Non se si è della razza sbagliata e si ha vissuto sulla propria pelle l’intero secolo».
Marina Gersony
Majgull Axelsson, Io non mi chiamo Miriam, Iperborea editore, traduzione Laura Cangemi, pp. 576, euro 19,50
Contro Hitler, per amore di una donna
e della propria libertà intellettuale
«La storia che qui si vuole raccontare ha per argomento una specie di duello. Si tratta di un duello impari fra due avversari molto diversi: tra uno Stato oltremodo potente, forte e brutale, e un piccolo privato cittadino, anonimo e sconosciuto (…). Lo Stato è il Reich tedesco, il privato cittadino sono io». Inizia così il libro Un tedesco contro Hitler. Berlino 1933 di Sebastian Haffner – pseudonimo di Raimund Pretzel, scrittore e giornalista tedesco -, un racconto autobiografico di come il nazismo si abbatté su un comune cittadino tedesco (non ebreo) in modo distruttivo e totale. L’avvento del Terzo Reich crea nella vita di Haffner una frattura fra un “prima”, costituito dalla Prima guerra mondiale, di cui l’autore parla con i ricordi del bambino che era all’epoca, e un “dopo”: la fine della guerra e l’avvento della Repubblica di Weimar, l’ascesa del nazismo e il totalitarismo del regime su tutti gli aspetti della vita. Quando Haffner capisce che la sua fidanzata ebrea corre il rischio di essere arrestata ed internata in un campo di concentramento, decide di interrompere il suo “duello” con il Terzo Reich, emigrando. Ma un interrogativo lo assale e non lo abbandonerà neppure in seguito: «Come (i tedeschi, ndr) potevano tollerare che gli venisse imposto di boicottare il proprio medico ebreo, il proprio avvocato ebreo? Come era possibile che un grande popolo civile accettasse di rinunciare alla propria autonomia intellettuale quando veniva costretto a gridare ‘Heil Hitler!’ di fronte a una croce uncinata o di balzare in piedi se la radio trasmetteva un discorso di Hitler?». Il testo è stato pubblicato in Germania solo nel 2000, dopo la morte dell’Autore, dal figlio. Il libro suscitò un grande interesse presso gli storici, colpiti dai numerosi particolari profetici della narrazione, ed ebbe anche un notevole successo editoriale.
Ilaria Myr
Sebastian Haffner, Un tedesco contro Hitler. Berlino 1933, Skira, pp. 256, euro 19,00
1933-1946: soccorritori e rifugiati. Chi fu salvato e chi salvò in quell’Italia oscura
È raccogliendo memorie e documenti del padre Berl (Bernardo) Grosser che il figlio Donato ha scritto questo prezioso libro, storie di salvati e salvatori in 13 anni di vicende italiane. Scritto in inglese per un lettorato americano che poco sa della Shoah in Italia, il libro di Grosser è pregevole anche per il pubblico italiano. Sono gli anni in cui il padre Berl è segretario di Delasem e Joint, e opera nell’assistenza ai rifugiati. Grosser rievoca le figure di R. Cantoni, D. Almansi, L.V. Valobra e molti altri; narra la vicenda dei bambini di Villa Emma e quella della nave Pentcho che, via fiume, da Bratislava doveva giungere in Palestina e i cui passeggeri, giunti a Rodi, furono salvati da Delasem. Un libro che narra il rispetto e l’amore di un figlio per l’impegno e l’idealismo di un padre.
Fiona Diwan
Donato Grosser, Refugees and Rescuers in Fascist and Post-War Italy (1933-1946), pp. 98, Il libro è in inglese e si può richiedere scrivendo a grosserconsulting@gmail.com
Tra oblio e memoria, l’unica vendetta è il racconto
«“Non è un mondo degno di essere vissuto. Non è un mondo degno di me”. E andò nella camera a gas con Rut tra le braccia…». Così scrive il giornalista polacco-italiano Włodek Goldkorn, figlio di ebrei sopravvissuti alla Shoah, nel suo straordinario libro Il bambino nella neve (Feltrinelli). Bisogna e si deve raccontare l’irraccontabile. La vendetta è il racconto, sosteneva Pier Vincenzo Mengaldo, nel suo acuto libro (Bollati Boringhieri) dedicato a testimonianze e riflessioni sulla Shoah: un evento che ci sovrasta ancora e ci mette di fronte, con Macbeth, a una storia “piena di frastuono e di furore, che non significa nulla”. La Shoah, “uno strepito abitato dall’inumano”, non ha nulla di metafisico e non era l’inevitabile conclusione della storia. Non si può dare un senso a una morte che non ha avuto senso né ragione: una morte causata dall’irrimediabile idiozia dei carnefici convinti che annientando gli ebrei il mondo sarebbe stato migliore. La Shoah, dice Goldkorn, è solo un vuoto, è il Male radicato dentro di noi. E allora, narrare cosa accadde non è soltanto una testimonianza, contro coloro che avrebbero voluto nascondere e cancellare i crimini, ma anche un doloroso sforzo di mostrare la controversa natura del Male, con la speranza, come diceva Primo Levi, di insegnare a riconoscerlo quando si dovesse ripresentare.
Oggi, la gran parte dei testimoni diretti della Shoah è scomparsa. Ci sono i loro figli e nipoti, nati e cresciuti dopo, e un grande problema con la Memoria. Włodek Goldkorn che, essendo nato negli anni Cinquanta appartiene alla “seconda generazione della Shoah”, è convinto che “la memoria è solo il nulla su cui cerchiamo di strutturare la nostra identità. Ed è un bene che sia così. Altrimenti non avrei potuto vivere e amare le persone vive. Il desiderio ha come premessa l’oblio”. Goldkorn lavora spietatamente sulla memoria, tirandola a fatica fuori da sé, lottandoci contro, ma alla fine rendendola viva: “Le vittime sono solo i morti. Noi, i viventi, dobbiamo essere giudicati per le nostre azioni, non per il passato dei nostri genitori o per il modo in cui morirono i nostri nonni, le nostre zie, i nostri cugini. (…) Per me la memoria della Shoah significa saper parlare e trasmettere agli altri il linguaggio della ribellione, della radicale contestazione delle verità del potere. Altrimenti quella memoria non esiste: si riduce a un esercizio di vuota retorica, un cerimoniale che non serve a niente…”. Il messaggio radicale e innovativo del libro di Goldkorn non rinuncia però alla “vendetta del racconto”. Anzi, la narrazione di tante storie famigliari e collettive è tutt’uno con tormentate riflessioni. Goldkorn narratore fa i conti non soltanto con ciò che accadde ai suoi parenti (la nonna materna Taube, la zia Nacha, la cugina Rut, e Srulik e Yokheved, Róźka, Hela, Tola e il piccolo Uszerek furono uccisi ad Auschwitz), ma racconta anche: l’esilio in Kazakistan dei suoi genitori, durante la guerra; il loro ritorno in patria per costruire, nelle loro speranze, una Polonia socialista e rispettosa delle minoranze; i massacri degli ebrei sopravvissuti (“molti ebrei, finita la guerra, vennero uccisi per non dover restituire un piumone…”); l’impegno del padre per tenere viva la cultura yiddish e per far la guardia alle tombe dei propri parenti e del proprio popolo in terra polacca; la giovinezza nella città ex tedesca di Katowice, dove i figli degli ebrei e comunisti giocavano, invece che a guardie e ladri, “ad Auschwitz”; le delusioni politiche e il trasferimento della famiglia a Varsavia; la campagna antisemita del regime comunista nel 1968 e la decisione forzata dei Goldkorn di lasciare la propria patria e trasferirsi in Israele, attraverso Vienna; le difficoltà di ambientamento a Tel Aviv; il traumatico servizio militare (l’episodio del diverbio con l’ufficiale, alle pagine 110-113, è un grande pezzo di letteratura) e la fuga a Francoforte. Ma anche da lì Włodek se ne andrà presto (“la Germania non faceva per me”) per trasferirsi definitivamente in Italia: “pensai che se ero condannato a non avere una casa, avrei vissuto nel paese più bello del mondo”.
Nel racconto è centrale la figura dei genitori, e un’idea particolarmente forte di famiglia. Come spiegò disperatamente il padre Goldkorn, durante la guerra e l’esilio in Unione sovietica, a un funzionario kazako che non voleva aiutarlo a salvare sua moglie gravemente ammalata: “Noi ebrei siamo gente strana, che voi kazaki non riuscite a comprendere. Per noi la famiglia è tutto. Per la famiglia siamo disposti a uccidere e morire”. Una famiglia che poi si rafforzerà nei suoi legami “perché quando il proprio mondo è scomparso rimangono soltanto gli affetti”. Un padre e una madre che a tavola parlavano sempre di politica e trasmettevano valori basati sul mettersi sempre nei panni dell’altro: “sono stato fortunato a crescere in una famiglia in cui il rancore, l’odio, l’idea di vendetta erano inconcepibili”. I genitori erano reticenti sulla Shoah e non raccontavano ai figli tutto quello era successo: “perché dire tutto avrebbe significato per i nostri genitori abbandonarsi al senso della vergogna. E la vergogna è il sentimento della morte. La vergogna è la morte senza lutto e quindi una memoria senza possibilità di oblio”.
Il bambino nella neve è un libro strano, difficilmente catalogabile. Strutturalmente è diviso in due parti. La prima, il racconto autobiografico, potrebbe terminare a pagina 115 con l’arrivo dell’io narrante in Italia. Proprio in Italia, Goldkorn racconta di aver sentito parlare per la prima volta dell’eroico comandante, sopravvissuto alla rivolta del ghetto di Varsavia (aprile 1943), Marek Edelman (del quale curerà il libro intervista, assieme a Rudi Assuntino: Il guardiano. Marek Edelman racconta, Sellerio). Edelman, che dopo la guerra è voluto rimanere in Polonia, facendo il cardiologo a Łódź, è stato il continuatore delle idee del Bund (il movimento socialista ebraico) e ha regalato la sua biografia e il prestigio che ne poteva derivare a chi lottava per un futuro migliore e per la libertà, in Polonia e all’estero. Per Goldkorn è stato, con il suo esempio di vita e azione politica, un “maestro di vita”: colui che gli ha dato una chiave per affrontare il problema della memoria della Shoah e dell’ebraismo.
La seconda parte del libro è un viaggio ad Auschwitz e Birkenau, e in altri campi in terra polacca (Bełżec, Sobibór, Treblinka), accompagnato dalla fotografa Neige De Benedetti (le cui foto aprono ogni capitolo del libro). A Birkenau diversi suoi famigliari “sono diventati in poche ore cenere e fumo”. Goldkorn ricorda che, nel 1964, suo padre, che faceva anche lui il giornalista, andò ad Auschwitz per seguire un sopralluogo dei giudici della Corte di Francoforte. Mentre camminavano in mezzo al fango, vi scorse un libro di preghiere per donne. Lo prese e lo ripulì, e vide nella pagina aperta il Kaddish. In quell’istante immaginò, anzi ebbe la certezza, che quel libro fosse appartenuto a sua madre, che pregava mentre veniva condotta alla camera a gas. Il trauma fu tale che svenne. (Pubblicato sul blog “doppiozero”, 27/V/2016)
Francesco Cataluccio
Wlodeck Goldkorn, Il bambino nella neve, Feltrinelli, pp. 199, euro 16,00
La muta ferita del silenzio
È incentrato sugli effetti psicologici di un trauma devastante come la Shoah il libro L’eco del silenzio. Il trauma della Shoah consegnato alle generazioni future edito da Giuntina: un testo breve (116 pagine), ma molto denso di analisi e riflessioni su quello che è stato l’impatto della Shoah non solo su chi l’ha vissuta in prima persona, ma anche sui loro discendenti, quei “figli della Shoah” che hanno subito di riflesso la tragedia e che assumono un ruolo di primo piano all’interno di una trattazione di argomenti che riguardano la trasmissione del trauma attraverso le generazioni. Oltre che delle esperienze vissute nei campi di concentramento, il testo analizza anche l’impatto di quelle di fuga, di nascondimento, nonché le conseguenze della malnutrizione, scarsa igiene e scarsità di aiuti medici. Per arrivare, poi, nell’ultimo capitolo, a parlare delle conseguenze sulla terza età, prima fra tutte il peggioramento dei normali processi di invecchiamento.
Ilaria Myr
Giorgio Caviglia, Maria Bove, L’eco del silenzio, Giuntina, pp. 116, euro 15,00
Una libertà dal sapore di cenere
Pensavamo di aver letto tutto sull’Olocausto o per lo meno di avere una conoscenza approfondita del genocidio perpetrato dalla Germania nazista e dai suoi alleati nei confronti degli ebrei d’Europa. Eppure non è così. Ogni volta che esce un saggio, un romanzo o una testimonianza, siamo ancora qui a stupirci e a interrogarci sulla tragicità di quanto è accaduto. Nonostante la nota sentenza adorniana di un dopo Auschwitz in cui «nessuna poesia, nessuna forma d’arte, nessuna affermazione creatrice è più possibile…», continuano a uscire libri a conferma che ricordare è una necessità fondamentale e sempre impellente. Moriz Scheyer è morto nel 1949, prima di pubblicare la sua storia di sopravvissuto e perseguitato. A cinquant’anni di distanza un nipote, P.N. Singer, ha rinvenuto una copia carbone nella soffitta della casa paterna. Riaffiora così la testimonianza vibrante di questo fine intellettuale ebreo austriaco – era responsabile del Neues Wiener Tageblatt -, costretto ad abbandonare il suo Paese nel 1938, dopo l’Anschluss. Si tratta di un documento di straordinaria intensità e acutezza in cui il giornalista e scrittore molto noto all’epoca – amico, tra l’altro, di Gustav Mahler, Arthur Schnitzler e Stefan Zweig – ricostruisce la sua storia in presa diretta, raccontando i suoi incontri, le sue paure e le sue speranze: costretto a lasciare l’Austria sempre più antisemita, si stabilisce a Parigi prima e dopo l’occupazione nazista. Braccato, imprigionato in un campo di concentramento in Francia, tenta la fuga in Svizzera, si salva per un pelo e trascorre un periodo in clandestinità presso un convento di suore francescane. Fino a ottenere la libertà che tuttavia «ha un sapore di cenere… una cenere che il vento porta con sé».
Marina Gersony
Moriz Scheyer, Un sopravvissuto, curatore P. N. Singer, traduzione di Claudia Acher Marinelli, Editore Guanda, pp. 352, euro 19,00
Cuore di cane…
e una famiglia nella tempesta
Ironico, struggente, pieno di humour. La fuga di una famiglia ebraica durante la guerra
si intreccia con la storia di Blasco, cane speciale e amatissimo, nel libro di Marina Morpurgo
Si ride sempre parecchio leggendo le storie di Marina Morpurgo, una vena ironico-esilarante al servizio di un messaggio forte e chiaro: non siamo nati per soffrire e l’allegrezza di un lieto fine è sempre meglio di una qualsiasi intelligente e complessa tragicità. Una ricetta semplice: il lato comico della vita da perseguire testardamente come unico antidoto al dolore, all’abbandono, alla perdita. Una filosofia dell’happy end for ever, anche quando la storia è tristissima, anzi struggente. Come quella della malattia fatale di Blasco, cane amatissimo della narratrice, la cui vicenda di cura e di strenuo tentativo di salvezza Marina Morpurgo racconta in È solo un cane (dicono), facendoci ridere e piangere, facendoci innamorare di questo cane speciale che nel libro ci parla in prima persona; un affetto testimoniato a Marina dai suoi 5000 followers su Facebook, durante gli ultimi mesi di malattia di Blasco. Ma nel libro c’è anche molto altro. C’è la vicenda di una famiglia ebraica italiana nella Seconda guerra mondiale che viene nascosta nel paesino toscano di Gambassi (lo stesso da cui viene Blasco), grazie all’aiuto di un parroco eccezionale, don Italo Ciulli, e alla generosità degli abitanti. Ci sono, sullo sfondo, le stragi di Meina e di Baveno. C’è il tema della Guerra e un intero nominario di cognomi tipici ebraico-italiani, Colombo, Calderoni, Fubini, Lattes, Bassani, Calabi, Foa. Nonni, zii, genitori, i ricordi familiari che si intrecciano con le parole dei veterinari che tentano l’impossibile per salvare Blasco. «Il tempo è limitato e le cose finiscono. Ma grazie a Blasco e alla sua malattia ho imparato a vivere i giorni che passano non come ciò che ci avvicina al disastro finale, non come ciò che ci porta alla perdita, ma come mattoncini di gioia e bellezza, di affetto e presenza, da mettere in saccoccia, come sassolini lisci e tiepidi che potrò accarezzare nei momenti di dolore e nostalgia. Mi riempio le tasche di sassolini, finché posso». Un piccolo libro pieno di gratitudine, gioia, sentimento.
Fiona Diwan
Marina Morpurgo, È solo un cane (dicono), edizione Astoria, pp. 112, euro 12,00
Niente su cui posare il capo
Dell’autrice non esiste una sola foto e sono poche le informazioni, tranne il suo libro miracolosamente sopravvissuto alla guerra e alla follia umana: pubblicato nel 1945 (lo stesso anno della sua morte), da un piccolo editore ginevrino, è sparito dalla circolazione fino a pochi anni fa, riemerso per caso in un mercatino di Nizza… È l’intenso resoconto di una donna coraggiosissima e della sua fuga; una fuga fisica, mentale e psicologica dal Grande Male Nazista. Scritto con il tono asciutto e didascalico della cronista, è la vita di chi decide di non soccombere. Françoise Frenkel – il cui vero nome è Raichenstein-Frenkel, Frymeta, Idesa, ebrea di origine polacca -, nel 1921 fonda la Maison du Livre, prima libreria francese di Berlino, punto di riferimento di intellettuali e scrittori nella Germania cupa post Grande guerra e in quella “frizzante” della Repubblica di Weimar. Tutto svanisce in una bolla di sapone con l’ascesa del nazismo. Françoise scappa (e ritorna) a Parigi dove inizia la sua lotta per la sopravvivenza: le truppe tedesche la costringono a riparare a sud, prima ad Avignone, poi Nizza, Grenoble e Annecy. Tre anni passati a nascondersi fino a quando, nel 1943, un destino benevolo riesce a farle passare clandestinamente la frontiera svizzera. Determinata a sopravvivere, Françoise affronta il suo tempo senza perdere la fiducia. Perché oltre al Male e al Bene Mascherato – quest’ultimo operato da chi aiuta per opportunismo, interesse o proprio tornaconto -, esiste anche il Bene Vero di quei Giusti pronti a mettere a repentaglio la loro stessa vita per salvarne un’altra…
Un libro che tocca corde profonde e merita di essere letto.
Marina Gersony
Françoise Frenkel, Niente su cui posare il capo, Guanda, trad. S. Levi, S. Lari, C.Turla, pp. 298, euro 18,00.
Da dove si origina il Male?
Da dove si origina il Male? Qual è la sua vera natura? Indifferenza, sopruso, antisemitismo, discriminazione, omicidio… È la storia di Mento Papo, ebreo marginale e senza qualità nella Sarajevo attraversata dalle uniformi uncinate degli ustascia. Ed è la storia del suo aguzzino, Stjepan Kovic, il fallito della città, eterno imbelle che “né matura né appassisce”; ma è anche il crescere della follia e della delazione che prende possesso di corpi e menti. Mito e epos si abbracciano al ritmo di un racconto che ci fa respirare classicità a pieni polmoni. Non a caso Emir Kusturica ne fece un film nel 1979. Non a caso, il curatore Bozidar Stanisic si sofferma sul respiro omerico di Andric spesso paragonato a Tolstoj. Come Stanisic mirabilmente sottolinea, “Andric non separa le radici interiori del male dalle sue manifestazioni concrete”. Una storia claustrofobica in cui “la vittima predestinata ingaggia un invisibile gioco d’azzardo con l’attimo della Storia in movimento”. Tre racconti cesellati come un cameo dal grande scrittore bosniaco premio Nobel per la letteratura nel 1961, autore indimenticabile de Il ponte sulla Drina, romanzo che sarebbe tempo di riscoprire.
Fiona Diwan
Ivo Andric, Buffet Titanic, Perosini Editore, trad. A. Parmeggiani, pp. 94, euro 12,00, pperosini@tiscali.it
La sarta di Dachau
Dachau, 1942. Sotto una finestra c’era una macchina da cucire, una di quelle a manovella, non a pedale. Così inizia la storia de La sarta di Dachau, – caso editoriale venduto in 26 paesi -, che narra le vicende di Ada Vaughan, una giovane sarta inglese con grandi ambizioni nella Londra del 1939. L’ingenuità e l’inesperienza sommate al clima di guerra, la portano a fidarsi del prossimo con ripercussioni terribili sulla sua vita: finirà a Dachau, segregata per anni in una soffocante stanzetta a cucire vestiti per la borghesia hitleriana. La sua fama arriva fino alle più alte gerarchie naziste che le commissionano un abito per una signora molto potente. Ada non sa che si tratta dell’abito da sposa di Eva Braun, l’amante del Führer. L’autrice, Mary Chamberlain è professoressa di storia a Oxford. Nel 2014, mentre sfoglia un saggio, scopre il mistero del vestito da sposa di Eva Braun. E la sua fantasia comincia a viaggiare… Marina Gersony
Mary Chamberlain, La sarta di Dachau, Garzanti, trad. Alba Mantovani, pp. 320, euro 16.90.
Scorpion Dance
I suoni, i colori e i profumi di Gerusalemme fanno da sfondo a questa intensa storia di amore: un sentimento totalizzante e incondizionato che vede Orion, il protagonista, legato alla nonna tedesca, Johanna, che lo ha cresciuto con dedizione infinita, dopo la morte del padre, che non ha mai conosciuto, e della madre, che lo ha abbandonato. Ma è anche la storia dell’amore di Orion per una ragazza di Berlino, l’unica con la quale l’uomo riesce a pensare a un futuro insieme. Su tutto regna inquietante l’ombra della Shoah, a cui la nonna è sopravvissuta lasciando pesanti segni sul corpo e sull’anima. E, inevitabilmente, anche sulla vita di Orion. Un libro intenso, in cui non mancano alcuni folgoranti colpi di scena.
Ilaria Myr
Shifra Horn, Scorpion Dance, Fazi, trad. Silvia Castoldi, pp. 432, euro 18,50.
I luoghi del male e la nuova xenofobia
Saggi / Un viaggio nel cuore nero d’Europa
Un insegnante e i suoi studenti compiono un viaggio della memoria, da Torino ad Auschwitz-Birkenau. Le emozioni, le impressioni dei ragazzi e la visione del viaggio del professore sono due mondi a confronto. Ma oggi, l’esperienza si rivela anche un viaggio nel presente dell’Europa, che si scopre nuovamente xenofoba.
Antonio Rinaldis, Il treno della memoria, Imprimatur, pp. 189, euro 15,00
La storia e le coincidenze. Racconti famigliari
Questo libro è stato scritto da Luciana Laudi che è anche la voce narrante. L’autrice racconta come ha vissuto la seconda guerra mondiale, e questo fa del libro una sorta di testimonianza e documento. Il libro è diviso in tre parti: nella prima parte Luciana parla di due suoi zii, Cesare e Rinaldo, mentre nella seconda parte parla della sua storia nel periodo dal 1938 al 1945, infine c’è la terza parte dove ci sono fotografie e documenti. Cesare era un ragazzo a cui non piaceva studiare e dopo l’inizio della seconda guerra mondiale fu mandato a Chioggia a lavorare in una fabbrica di conservazione del pesce che apparteneva a un cugino. Dal momento che la situazione in Italia nel 1943 stava precipitando e si faceva sempre più pericolosa per gli ebrei, il cugino per cui Cesare lavorava gli propose di scappare in Svizzera, ma egli rifiutò perché non percepiva ancora il pericolo. Purtroppo Cesare fu imprigionato a Venezia, portato al campo di Fossoli e infine da lì deportato; dopo undici mesi passati ad Auschwitz, Cesare morirà durante la marcia della morte. Dopo settant’anni, le lettere di Cesare tornano alla luce. Poi si racconta del “Dottor Dino Laudi” (Dino era il nome di battaglia di zio Rinaldo, che era un medico partigiano che fu ucciso durante la guerra) e della sua amicizia con Giuliana Manasse. Tramite il Bollettino della Comunità Ebraica di Milano è stato possibile ricostruire con emozione la sua storia con Rinaldo. Poi c’è il racconto della fuga di Luciana, bimba piccolissima, con i suoi genitori da Bologna; soggiornarono in una casa di contadini. La fine della guerra: suo padre la mise sulle sue spalle e cominciarono a festeggiare, era il giorno della liberazione, la guerra era finita e lei aveva sei anni e mezzo. L’autrice conclude confessando a suo nipote, primo destinatario di questo libro, che è felice che i suoi ricordi di un momento storico importante siano con lei e di poterli trasmettere a lui in modo che li tramandi alla sua generazione. Il libro coinvolge anche da un punto di vista emotivo perché si tratta di una nipote che riporta la tragica storia dei suoi zii, raccontando anche la triste situazione dell’Italia, ma soprattutto degli ebrei in quel periodo.
Odelia Hakimian
Luciana Laudi, La storia e le coincidenze, Racconti famigliari, edizioni Scritture, pp. 92, euro 13,00
I bambini di Vienna
C’è Jid, l’ebreo mago del borseggio, c’è Ewa, giovane prostituta occasionale, ma ci sono anche Goy e Ate, i due non ebrei, lei ex capo di una sezione della gioventù hitleriana. Sono questi e altri i giovani protagonisti di questo libro, ambientato nella Vienna post-bellica, in una cantina di un palazzo crollato sotto le bombe. Un raggio di sole è l’arrivo di un reverendo americano, che li aiuta a difendersi da chi vuole farli sloggiare da lì. E che soprattutto ascolta le loro storie di infanzia negata dal conflitto, dal nazismo e dai campi di concentramento, regalando loro una speranza di una vita nuova.
Ilaria Myr
Robert Neumann, I bambini di Vienna, Guanda, trad. Silvia Albesano, pp. 211, euro 16,50.
E PER ULTIME, ALTRE SEGNALAZIONI E SUGGERIMENTI
(non lette preventivamente dalla redazione)
Duello nel ghetto
Maurizio Molinari, Amedeo Guerrazzi Osti, Rizzoli
La sfida di un ebreo contro le bande nazifasciste nella Roma occupata. La vera storia di Pacifico di Consiglio e della sua guerra contro il capo delle bande fasciste. Una vicenda drammatica di intrighi e delazioni ai tempi della persecuzione razziale.
Moretto a Roma se lo ricordano ancora. Il suo vero nome è Pacifico di Consiglio e nel 1943 è l’unico ebreo romano che durante l’occupazione nazista resta in città per dare la caccia ai suoi persecutori. Pugile dilettante, la vita di Moretto, come quella di tanti ebrei romani, cambia dopo il 1938. Ma a differenza di altri, Moretto trova il modo per ribellarsi. Fa innamorare la nipote di Luigi Roselli, uno dei più spietati e pericolosi collaboratori italiani dei nazisti, e, grazie alle informazioni della giovane, lancia una sfida alle bande comandate dal colonnello Kappler, capo della polizia tedesca di Roma.
UNA NOTTE DEL ’43
AUDIOLIBRO- Cinque attori, cinque voci ferraresi di oggi rileggono
il celebre racconto di Giorgio Bassani, Emons edizioni
Una notte, cinque voci. Il celebre racconto di Giorgio Bassani, Una notte del ’43 – quinto di quelle indimenticabili Cinque storie ferraresi, Premio Strega nel ’56 – rivive oggi, nei cent’anni dalla nascita dello scrittore, nella voce di cinque attori.
Un piccolo gruppo di interpreti ferraresi guidati da Stefano Muroni, ideatore e curatore del progetto, capaci di ridarci, a distanza di tanto tempo, quella Ferrara cittadina di provincia simbolo di un’intera nazione, avvolta dalla pesante nebbia scura del fascismo.
Un audiolibro, una lettura ad alta voceche con Monica Chiarabelli, Massimo Malucelli, Fabio Mangolini, lo stesso Muroni e Marco Sgarbi, denuncia – se possibile in modo ancora più forte – coloro che preferirono il conforto e la sicurezza del conformismo e della viltà al coraggio della parola e dell’azione.
Una notte del ’43 è infatti una storia densa che si dirama intorno a un eccidio emblematico della guerra civile italiana, una lucida lettura del ventennio fascista e del conflitto interiore di una provincia.
“Una lettura mai schematica e scontata con toni e sfumature differenti da voce a voce”, racconta Muroni. “La narrazione viene riproposta in maniera a volte tradizionale e accademica, altre più ritmata e viscerale, altre volte drammatica e energica, altre ancora fluttuante e quasi con toni magici e surreali, come fosse una favola”.
Con il patrocinio della Fondazione Giorgio Bassani, l’Istituto di Storia contemporanea di Ferrara e il Comune di Ferrara, l’omaggio non si esaurisce nella lettura: ad accompagnarla un volumetto con tre saggi inediti firmati da Giuseppe Muroni (insegnante di lettere e storia) Eleonora Rossi (autrice e giornalista) e Anna Maria Quarzi (docente di lettere e storia e direttrice dell’istituto di storia contemporanea di Ferrara). Un agile apparato critico che comprende un saggio storico – Ferrara in grigio. Storie e uomini della notte del terrore – uno letterario – La storia in una boule de neige – e uno cinematografico – La lunga notte del ’43. Il film come storia – che rimanda al lungometraggio di Florestano Vancini del 1960.
versione: integrale | collana: classici | durata: 1h 27m | uscita: 27 gennaio
1 CD MP3: € 12,90 | download: € 7,74
Il farmacista del ghetto di Cracovia
Tadeusz Pankiewicz, Il farmacista del ghetto di Cracovia, UTET, 14,00 euro
Quando in un quartiere periferico di Cracovia viene creato d’autorità il ghetto ebraico, il 3 marzo 1941, Tadeusz Pankiewicz ne diventa suo malgrado un abitante. Pur senza essere ebreo, infatti, gestisce l’unica farmacia del quartiere: contro ogni previsione e contro ogni logica di sopravvivenza, decide di rimanere e di tenere aperta la sua bottega, resistendo ai diversi tentativi di sgombero, agli ordini perentori di chiusura e trasferimento. Rimarrà anche quando il ghetto verrà diviso in due e in gran parte sfollato, quando diventerà sempre più difficile giustificare la necessità della sua presenza.
Grazie a questa sua condizione anomala, coinvolto ed estraneo allo stesso tempo, Pankiewicz diventa una figura cardine del ghetto: si fa testimone delle brutalità del nazismo, fedele cronista dei fatti e silenzioso soccorritore, cercando in tutti i modi di salvare la vita e, quando impossibile, almeno la memoria delle migliaia di ebrei del ghetto di Cracovia.
Il fabbricante di giocattoli
Liam Pieper, Il fabbricante di giocattoli, Bookme, 14,90 euro
“Lasciate che vi racconti una storia su mio nonno…” è la frase con cui Adam Kulakov, proprietario di una grande fabbrica di giocattoli a Melbourne, in Australia, ama aprire i suoi discorsi ufficiali. E pazienza se il suo stile di vita di seduttore e bugiardo incallito non ricalca propriamente i valori incarnati dal nobile patriarca. Sì, perché suo nonno Arkady – eroe scampato ai campi di sterminio nazisti, fondatore dell’impresa di famiglia e colonna della società – ha davvero una storia eccezionale alle spalle: quella di un uomo che, sprofondato nel male più assoluto, scopre la sua vocazione costruendo piccoli, rudimentali giocattoli per i bambini di Auschwitz, e così facendo trova la forza di non soccombere. Ma nu lla è come sembra in questo romanzo fitto di ombre e di colpi di scena. Sconvolgente, spietato, appassionante, Il fabbricante di giocattoli è la storia di un segreto inconfessabile. Capace di tracciare, in un vertiginoso gioco di rimandi tra passato e presente, un ritratto senza sconti delle ipocrisie, delle contraddizioni delle calcolate amnesie così tipiche del nostro tempo.
Caccia alla marmotta
Ulrich Becher, Caccia alla marmotta, Baldini&Castoldi
È il giugno 1938 e in seguito all’annessione dell’Austria da parte della Germania nazista il giornalista viennese Albert Trebla fugge verso i Grigioni insieme alla moglie Roxane. Sono giorni carichi di angoscia e alle notizie inquietanti che arrivano dall’estero si aggiungono gli eventi luttuosi che agitano la tranquillità dei paesini attorno a Saint Moritz, tra morti improvvise e misteriosi suicidi.
L’assunzione di efedrina, necessaria per contenere gli effetti della febbre da fieno di cui soffre, unita ai ricordi della Prima guerra mondiale, costantemente richiamati da una ferita al volto che pulsa come «un cuore in fronte», mettono Trebla in una situazione di fluttuante allucinazione. Il giornalista si convince che due giovani austriaci giunti nella località alpina appena dopo di lui, sedicenti cacciatori di marmotte, siano stati mandati dai tedeschi per liquidarlo. Realtà e immaginazione, prove e sospetti, passato e presente si mescolano allora in una caccia all’uomo che da preda, più o meno presunta, si trasforma in cacciatore. Ma di cosa? Di nazisti, di donne, di storie o di ombre del passato?
Uno zaino, un orso e otto casse di vodka
Lev Golinkin, Uno zaino, un orso e otto casse di vodka, Baldini&Castoldi
Lev Golinkin nasce a Char’kov, in Ucraina, nel 1980. La Guerra Fredda e l’Unione Sovietica sono al tramonto. Era un’epoca di macchinoni neri e di sparizioni notturne, informatori del KGB appostati a ogni finestra, umiliazioni, paura e violento antisemitismo. I genitori di Lev desideravano per lui e sua sorella, Lina, una vita migliore, ma le frontiere erano ancora sigillate e il sogno dell’America lontanissimo. Poi, alla fine del 1989, si aprì uno spiraglio per la fuga – una fuga definitiva – e i Golinkin, insieme a centinaia di migliaia di ebrei sovietici, rischiarono tutto per riuscirci. Ma dovevano fare in fretta: girava voce che a partire dal 31 dicembre l’America non avrebbe accolto più nessuno. Vivace, emozionante, venato di humour nero, Uno zaino, un orso, e otto casse di vodka è un viaggio nella follia totalitaria che snatura la vita e le coscienze di adulti e dell’infanzia, visto dalla prospettiva personale di un bambino vulnerabile ma ostinato, costretto a vivere in un Paese che non lo vuole. Ma è anche la storia dell’uomo Golinkin diventato americano, che torna in cerca delle tante persone che avevano reso possibile la sua fuga, per ritrovare il senso di quella solidarietà umana, unica superstite di un’epoca di grandi macerie.
Auschwitz
Guida alla visita dell’ex campo di concentramento e del sito memoriale
Carlo Saletti, Frediano Sessi, Marsilio
Auschwitz è una guida ricca di informazioni, fotografie e mappe, di suggerimenti puntuali per aiutare il visitatore a entrare in ciò che resta oggi di questo terribile passato, un utile strumento per cominciare a ricostruire la storia del complesso concentrazionario e a rivivere con l’immaginazione i frammenti di vita quotidiana di molti dei deportati ebrei e non che vissero in questo luogo i loro ultimi giorni.
Il silenzio dei vivi
Elisa Springer, Marsilio
Elisa Springer aveva ventisei anni quando venne arrestata e deportata ad Auschwitz con il convoglio in partenza da Verona il 2 agosto 1944. Salvata dalla camera a gas dal gesto generoso di un Kapò, Elisa vive e sperimenta tutto l’orrore del più grande campo di sterminio nazista.
La voce dei sommersi
Manoscritti ritrovati di membri del Sonderkommando di Auschwitz
a cura di Carlo Saletti, Marsilio
Il libro che ha ispirato il capolavoro di László Nemes IL FIGLIO DI SAUL, vincitore del Grand Prix al Festival di Cannes e distribuito in Italia da Teodora Film dal 21 gennaio 2016.
Le donne e l’Olocausto
Ricordi dall’inferno dei Lager
Lucille Eichengreen
traduzione di Errico Buonanno, Marsilio
Le donne e l’Olocausto è uno dei pochi memoriali che si concentra esclusivamente sulle donne. Con sincerità straziante, Lucille Eichengreen offre uno sguardo approfondito e sincero dell’esperienza femminile nei campi nazisti.
Eravamo ebrei
Questa era la nostra unica colpa
Alberto Mieli, Ester Mieli, Marsilio
Alberto Mieli dopo settant’anni racconta per la prima volta alla nipote Ester la sua infernale esperienza da deportato nel campo di concentramento di Auschwitz. «Non c’è ora del giorno o della notte in cui la mia mente non vada a ripensare alla vita nei campi, a quello che i miei occhi sono stati costretti a vedere.»
Racconti dal ghetto di Lodz
Gli scritti ritrovati di un adolescente morto ad Auschwitz
Abram Cytryn, traduzione di Frediano Sessi, Marsilio
Ritrovati a Lodz dopo la guerra e conservati dalla sorella per cinquant’anni, i taccuini di Abram Cytryn costituiscono un documento eccezionale e sconvolgente sul ghetto di Lodz, dove Abram ha vissuto dal 1940 al 1944.