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Paritarie, quel magro contributo che discrimina i meno abbienti

I 150 milioni dedicati alle scuole paritarie sono un obolo dettato da miopia e preconcetto. Lo Stato non ha ancora afferrato che così facendo discrimina i più deboli

Da anni non si discuteva più di scuole paritarie, non si poneva più la questione della libertà educativa negata. L’Italia, caso quasi unico se non fosse per la Grecia, accomunata dalla stessa mancanza del riconoscimento di una scelta scolastica libera ed effettivamente garantita, non ha mai risolto l’incongruenza che di fatto perpetua il misconoscimento e la violazione di un diritto fondamentale. Vale a dire: soltanto chi può permetterselo, pagando di tasca propria, può decidere in che scuola mandare i propri figli. E il fatto stesso che nello scorrere dei decenni, mentre molti diritti individuali hanno trovato consenso e consolidamento anche a prescindere da costi e conseguenti effetti sociali controversi, perduri la pervicace discriminazione in campo educativo ne conferma la resistenza come un retaggio inoppugnabile, pur nella sua illogica contraddizione.

Oggi è l’effetto Covid, con i tragici contraccolpi economici, a rimettere a tema la libertà educativa con un appello imprevisto e accorato di famiglie che non potranno più pagare le rette scolastiche e si vedranno costrette a rinunciare a un “servizio” collaudato, a un riferimento che già nel presente sta sostenendo i figli nell’affronto di un momento di emergenza e di fatica che richiede un surplus di “insegnamento”, di accompagnamento a vivere la circostanza carica di impreviste inquietudini.

Sarebbe parso doveroso da parte del Governo lanciare un segnale di responsabilità e realismo per garantire la continuità del servizio, ma purtroppo sembra prevalere l’ottusità ideologica che riduce il sostegno ai 150 milioni di euro stanziati, una cifra che non consentirà di salvare le scuole dal tracollo che comunque ricadrà anche sulle casse dello Stato, costretto ad ampliare l’offerta scolastica per tappare la falla creata dalla chiusura di centinaia di istituti.

“Meschini e imprevidenti” sono stati definiti i parlamentari, che si sono limitati a stanziare una cifra irrisoria per rispondere a un’urgenza drammatica non solo per una fascia di utenti, ma per tutto il sistema e per tutto il Paese. E forse la debolezza più profonda, quella fragilità che finisce con l’annebbiare le menti persino quando si tratta di fare due conti, di stabilire priorità, di calcolare le conseguenze di provvedimenti dissennati, sembra legata a un pregiudizio ferreo e intransigente, radicato ed invasivo come un cancro inguaribile.

È una sorta di ottundimento della ragione che pigramente riformula sempre gli stessi ragionamenti senza spezzare il cerchio di invincibili preconcetti che, a ben vedere, finiscono per informare un pensiero comune, una mentalità uniformemente diffusa.

Forse è questa mancanza di realismo, di conoscenza e di curiosità, a rendere così incompreso e distante il tema della libertà di educazione. Un tema che dovrebbe far vibrare il cuore e che invece a volte evoca solo un bene di nicchia, una “scuola dei ricchi” che, se proprio preferiscono non uniformarsi, è giusto che paghino. In questa percezione così ristretta e alienata, eppure divulgata, forse sta la fragilità di una libertà che troppo pochi, anche in tempi meno tragici di questi di pandemia, hanno saputo amare e difendere.

Un genitore oggi forse si ribellerebbe se fosse costretto a far visitare il suo bambino da un pediatra “assegnato” d’ufficio, ma sulle scelte educative al più si augura che il proprio figlio capiti in una buona sezione, ma sa che non potrà fare molto altro. E in questa congiuntura così grave, il grido per salvare le paritarie rischia di rimanere inascoltato, di restare strozzato nella gola di pochi, di non suscitare indignazione o protesta di vasta portata. 

Resiste come una contraddizione illogica, un disvalore evidente (per chi lo volesse considerare senza pregiudizi), eppure prepotentemente preservato da qualsiasi ispirazione di equità, uguaglianza, giustizia sociale. Nell’immaginario collettivo, fra l’altro, non si percepisce che sono i meno abbienti ad essere fortemente discriminati dal sistema unico e monolitico chiuso a qualsiasi diversa opzione: la libertà di educare in un sistema che non ne recepisce l’attuazione, diventa un lusso cui solo i privilegiati possono ambire. Il “privilegio” non riguarda soltanto il reddito, che evidentemente entra in gioco ad assicurare il pagamento delle rette, ma è relativo soprattutto alla consapevolezza di un compito educativo che richiede particolare cura e che investe anche gli ambiti collaterali a quello familiare. Educare, accompagnare e accompagnarsi nell’avventura della conoscenza della realtà, della vita, del mondo, dei suoi drammi e delle sue meraviglie… è un evento che non dipende solo dalla buona organizzazione di un’istituzione.

Il passaggio dell’esperienza alla conoscenza, l’apprendimento di specifiche discipline, di un “sapere” che si collega all’esistenza e alle sue scelte… Tutto questo impegnativo “lavoro” – lo sanno bene gli educatori, che siano insegnanti o genitori – esige condivisione, un dialogo leale e stringente, un’alleanza nella proposta. In questa prospettiva si misura la libertà educativa, spesso svilita, incompresa, disattesa.

da: Il Sussidiario – Laura D’Incalci