Gli altri paesi europei non hanno chiuso i licei, come sta facendo l’Italia. Non sappiamo, al momento, su quali basi sia stata operata questa scelta
All’eterna operetta politica italiana mancava (il lockdown non ha cambiato niente, anzi ha peggiorato certi inutili minuetti) la guerra dei dati. La materia del contendere è seria, si tratta dei contagi da coronavirus, del come, del dove e del perché. Sulla contesa Regioni-governo si è parlato, si sta parlando e si parlerà. Non ne esce bene nessuno. Da settimane il ministro Roberto Speranza si agita in Consiglio dei ministri per chiudere, chiudere sostenuto dal ministro Dario Franceschini. La sinistra di Articolo uno e il Pd, di cui il ministro dei Beni culturali è anche capo delegazione, schierati per il rigore prima di tutto. Allarmi, preoccupazioni, la paura di dover arrivare al giorno in cui alla enne richiesta di terapia intensiva non si potrà più rispondere.
Tutte lecite considerazioni, ma, soprattutto in questa fase, la politica, le scelte da fare e l’emotività dovrebbero essere disgiunte. Sarebbe troppo facile chiedere al ministro della Sanità se nei quattro mesi che ci sono stati tra la prima e la seconda ondata (evento ampiamente prevedibile) non si poteva fare qualcosa di più, se non si poteva creare, ma da fine aprile-inizio maggio, una task force che operasse sul campo, valutasse criticità locali, costruisse tensostrutture, microreparti per fronteggiare quel che sarebbe arrivato.
Magari, siamo degli ingenui. E’ vero, anni e anni di disinvestimento e il Covid che ci inguaia con un sistema sanitario dissestato ed eroico quando funziona. Non ci aspettavamo le tempistiche per la costruzione di un ospedale viste a Wuhan, qualcosa meno, ma anche qualcosa di più di quello che vediamo ora. Per dire: che senso ha aver fatto fare ancora una volta, questa estate, il test d’ingresso alla facoltà di Medicina non avendo più medici e avendo dissuaso negli anni passati con lo stesso strumento (inutile) migliaia di ragazzi dall’intraprendere studi per i quali avevano anche legittime passioni? E perché non si parla delle difficoltà anche per inserirsi nelle professioni sanitarie, oltre la retorica degli eroi (che adesso qualcuno svilisce pure). Gli infermieri prendono stipendi non all’altezza del valore assoluto del loro lavoro. Ma le cose da dire e gli interrogativi da porre sarebbero infiniti.
Nessuno discute l’esigenza del momento, salvare vite umane, evitare terapie intensive, combattere il virus. Però, insomma, se quel che abbiamo alle spalle è così poco, il richiamo etico ad essere tutti uniti suona troppo retorico, sordo, vuoto. Se da esempio mondiale da seguire siamo sull’orlo della bancarotta sanitaria, qualcosa non torna. Il ministro Speranza in Parlamento ha citato le sofferenze degli altri paesi europei. Vero, stanno male, alcuni malissimo, peggio di noi. Ma, chiediamo al ministro e a tutti, perché i capi di governo di Francia, Gran Bretagna, Germania hanno preso misure dolorosissime per i loro cittadini, tranne la chiusura di scuole e luoghi di lavoro? La storia e la cultura di quei paesi lo esigono, hanno anche frettolosamente riaperto in primavera e frettolosamente richiuso, soprattutto in Francia. Ma perché, invece, da noi non è così, e nemmeno in un governo di centrosinistra vediamo la sensibilità che la scuola meriterebbe? La ministra dell’Istruzione ha fornito dopo le due prime settimane dati confortanti sui contagi: il virus non si prende nelle aule scolastiche, percentuali ridicole rispetto al tutto. Poi non abbiamo saputo più nulla, ma abbiamo assistito all’assalto alla scuola da parte di quasi tutti i Governatori, di cui particolarmente impegnati nel chiudere, chiudere proprio quelli del Pd. Il problema è culturale, annoso, ma anche politico: se Zingaretti invia due tweet di sostegno a De Luca che vuole chiudere le scuole con la ministra Azzolina a chiedere, invece, di impugnare una decisione del genere, vuole dire che c’è una distanza tra parti politiche dello stesso governo davvero enorme. In Consiglio dei ministri più volte la ministra dell’Istruzione ha spiegato le gravi conseguenze per i ragazzi dalla chiusura delle scuole, del ritorno alla Did, dello sforzo immane non ancora completato di dare ad ogni studente un device. Parole cadute nel gelo dei presenti.
Quel che però non è chiaro, prima di andare dritti alla chiusura delle scuole (non di tutte, per fortuna), come è stato fatto, quale sia la situazione davvero là dentro (a parte numeri incontrollati dati da questo o quell’assessore). A quale percentuale di contagi siamo nelle aule scolastiche? E’ il sistema complessivo che non va? Si mettono in moto troppe persone per la scuola e i trasporti non sono sufficienti e i distanziamenti non ci possono essere? Non bastava organizzare orari differenziati di ingresso e di uscita? Quando la scuola in quattro mesi si è messa al lavoro per consentire la riapertura in presenza dal 14 settembre tutte le altre parti in commedia cosa hanno fatto? Se era un lavoro inutile si poteva mandare tutti in ferie, no? Inoltre: se Miozzo (Cts), Locatelli (Css), Arcuri, Richeldi (Cts), per non citarli tutti, dicono che il virus non si prende a scuola, perché il ministro della Sanità, che si avvale dei consigli della comunità scientifica, sin dal primo giorno della seconda ondata montante ha chiesto la chiusura delle scuole?
Ci mostrate i dati scientifici, le evidenze? Alla disperata ricerca di cifre che da settimane non vengono pubblicate scopriamo che i numeri dei contagi nelle scuole sono a disposizione del ministro della Sanità, il quale sin qui non ha avuto la bontà di renderli pubblici, quanto meno per farci capire di cosa stiamo parlando. E che non sarebbero stati forniti, dopo esplicita richiesta, nemmeno alla ministra dell’Istruzione. Nell’epoca delle mail certe risposte si dovrebbero avere a stretto giro. Volendo. Se, invece, non ci sono, ministro Speranza, lo dica.
Fabio Luppino – HUFFPOST – 6 novembre 2020